Il 2023 e il 2024
Per quanto riguarda le forme di limitazione e privazione della libertà personale, il 2023 ha registrato alcuni dati particolarmente rilevanti. Anzitutto, per quanto riguarda l’area penitenziaria complessivamente considerata, si è verificato un aumento della popolazione detenuta che non corrisponde, tuttavia, a un incremento del numero dei reati commessi. Come rileva Antigone, infatti, dal 1 gennaio al 31 luglio 2023 sono stati commessi in Italia 1.228.454 delitti, il 5,5% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Quest’incremento della popolazione detenuta è imputabile certamente a una pluralità di fattori tra i quali, tuttavia, rileva in modo particolare la tendenza - evidente segnatamente nella presente legislatura - della politica a estendere l’area del penalmente rilevate, moltiplicando le fattispecie penali, ampliandone l’ambito di applicazione o inasprendone il trattamento. Tutto questo produce effetti rilevanti sul tasso di crescita della popolazione detenuta, tale da vanificare spesso anche le misure deflattive adottate negli anni immediatamente precedenti, restituendo così l’idea di una sorta di perenne immobilismo e irresolubile criticità del carcere. Tra le tipologie di reati contestati ai detenuti vi sono in primo luogo i reati contro il patrimonio (34.126 persone al 2023), seguiti dai reati contro la persona (26.211 persone al 2023) e dai reati per la legge sulle droghe (20.566 persone al 2023), mentre gli stranieri costituiscono il 32% delle presenze, soprattutto per reati contro il patrimonio, spesso di lieve entità (quelli talora definiti “reati di sussistenza”).
Le condizioni detentive restano, così, drammatiche per effetto del sovraffollamento, dell’assenza di progetti qualificati (e qualificanti) di formazione e istruzione, per le concrete dinamiche della vita intramuraria. Con riferimento al lavoro, ad esempio, nel 2023 i detenuti impegnati in attività lavorative raggiungevano il solo 33,3% del totale, a dimostrazione dell’esiguità dei percorsi di questo tipo, che contribuirebbero invece a realizzare quel fine di reinserimento sociale cui la pena deve tendere.
Riguardo alle concrete condizioni detentive, va poi segnalata l’attuazione che, nel suo primo anno di applicazione, ha incontrato la circolare Dap n. 3693/6143 del 18 luglio 2022. Essa aveva, infatti, tentato di riorganizzare il circuito della media sicurezza, in cui è ristretto oltre il 70% dei detenuti complessivamente presenti e che rappresenta, dunque, l’ambito penitenziario più significativo. La circolare muoveva dall’esigenza di superare il dualismo custodia aperta/custodia chiusa, promuovendo in misura maggiore l’individualizzazione del trattamento. Nonostante tale intento tuttavia nella sua concreta applicazione la circolare ha piuttosto sortito l’effetto di rendere prevalente il modello della custodia chiusa, determinando una netta riduzione (di 9.750 unità) dei detenuti assegnati alle sezioni a custodia aperta.
Un importante riconoscimento del diritto all’affettività dei detenuti è derivato poi dalla sentenza n.10/2024 della Corte costituzionale. Con tale pronuncia è stata dichiarata l’illegittimità del divieto assoluto di colloqui intimi tra detenuti e familiari, per la garanzia del diritto all’affettività in carcere, dopo più di dieci anni dalla sentenza n. 301/2012.
Con tale pronuncia, la Corte Costituzionale sottolineava come la questione concernesse“una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale: esigenza che trova attualmente, nel nostro ordinamento, una risposta solo parziale nell’ […] istituto dei permessi premio […] la cui fruizione – stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi, resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria. Si tratta di un problema che merita ogni attenzione da parte del legislatore”. Già nel 2012, quindi, la Corte Costituzionale pronunciava un chiaro monito per il legislatore. Un legislatore che più di dieci anni dopo è ancora inadempiente.
Al fine di favorire le relazioni affettive, l’art. 19 del d.lgs. n. 121 del 2018 ha introdotto, per i detenuti minorenni, la possibilità di fruire ogni mese di quattro visite prolungate che si svolgano in unità abitative all’interno degli istituti appositamente attrezzate e tali da riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico.
Con la sentenza 10/24, la Corte ha reso possibile l’accesso a colloqui riservati senza il controllo a vista da parte del personale della polizia penitenziaria, in ragione della dichiarata illegittimità dell’art. 18 della legge n. 354/1975 (ord. penit.), rimettendo la valutazione del caso concreto all’amministrazione, in prima istanza e, in caso di diniego, a quella giurisdizionale del magistrato di sorveglianza.
Un altro importante riconoscimento, sia pur di tipo diverso, deriva dalla sentenza del 9 marzo 2023 con cui il Tribunale di Siena ha condannato cinque poliziotti penitenziari per tortura ai danni di una persona detenuta, per fatti avvenuti nell’ottobre 2018 nel carcere di San Gimignano. La condanna dimostra, da un lato, la drammaticità delle condizioni di vita in alcuni contesti penitenziari ma anche, dall’altro, la funzionalità della norma incriminatrice del delitto di tortura che, benché sicuramente perfettibile nella costruzione, ha comunque svolto un ruolo importante nella repressione di questo intollerabile fenomeno.
Drammaticamente invariata è l’emergenza dei suicidi in carcere, il cui numero è pari a circa 18 volte il tasso di suicidi nel contesto extramurario e che, anche nel 2023, ha riguardato spesso ragazzi anche giovanissimi.
Per quanto riguarda invece le forme di limitazione della libertà di natura extrapenale, rileva in modo particolare il trattenimento formalmente “amministrativo” (perché non correlato ad imputazioni di reati) delle persone migranti nei centri per il rimpatrio.
Da questo punto di vista anche il 2023 ha potuto confermare il dato, già consolidato, della sostanziale disfunzionalità del trattenimento amministrativo rispetto al fine sottesovi. Come risulta dai dati evidenziati dal Garante nazionale delle persone private della libertà, infatti, tale misura è risultata, nel 50,6 per cento dei casi, incapace di realizzare lo scopo (il rimpatrio, appunto) che le era sotteso, come spesso risultava evidente già all’inizio dell’esecuzione della misura.
Si tratta, appunto, di un dato ormai da tempo consolidato, che oltretutto dimostra- come peraltro già ampiamente documentato- che l’identificazione avviene non oltre i primi sei mesi, decorsi i quali il trattenimento non è più utile.
In ordine all’esecuzione delle misure di sicurezza, la positiva innovazione delle Rems ha, tuttavia, incontrato rilevanti difficoltà attuative, persistenti anche nel periodo di riferimento. Il piano terapeutico riabilitativo risulta, infatti, tuttora definito soltanto per il 46 per cento dei pazienti definitivi accolti, a dimostrazione dell’ancora troppo limitato investimento su queste misure.
Le tendenze su rilevate si sono consolidate e, anzi, in molti aspetti aggravate durante il 2024, caratterizzato da un significativo incremento della popolazione detenuta (anche per effetto di recenti politiche penali “carcerocentriche”) e del tasso di suicidi in carcere,.
Per quanto riguarda il primo profilo, come documenta il rapporto Antigone, alla data del 30 novembre 2024, la popolazione detenuta ha raggiunto il numero di 62.464 unità, registrando un incremento del 3,8% rispetto ai dati dell’anno precedente. Si tratta di una tendenza destinata, verosimilmente, ad aumentare, anche considerando che nei primi due anni di questa XIX legislatura sono state introdotte circa ventisette nuove fattispecie di reato o significativi inasprimenti di sanzioni già previste (rave illegali, morte e lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione irregolare, lesioni nei confronti di medici e operatori sanitari, riproduzione abusiva di opere coperte da prerogative autoriali, incendio boschivo, omicidio nautico, lesioni nautiche e violazioni del codice della nautica, spaccio non occasionale di sostanze stupefacenti, reato di “stesa”, nuovi reati in materia di accessi abusivi a sistemi informatici e a informazioni relative alla sicurezza pubblica, maternità surrogata all’estero.
Analogamente molte altre nuove fattispecie di reato o inasprimenti di pene sono previsti dal disegno di legge governativo c.d. sicurezza, all’esame del Senato in seconda lettura, quali ad esempio il delitto di rivolta all'interno di un istituto penitenziario o nei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), applicabile nel caso di protesta anche non violenta come la resistenza passiva. Si prevede inoltre di rendere facoltativo, anziché obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore a un anno e qualora non venga disposto il rinvio, l’esecuzione della pena presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri. Inoltre è previsto che l’esecuzione non sia rinviabile ove sussista il rischio, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti. Perplessità sono state espresse, rispetto a questo disegno di legge, dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, in una nota rivolta al presidente del Senato nel dicembre 2024.
La criticità delle condizioni detentive può, almeno in parte, spiegare l’elevato tasso di suicidi in carcere, che secondo stime riportate da Antigone nel 2024 ha toccato il limite, mai raggiunto prima, di 88 persone detenute, superiore addirittura al drammatico primato del 2022 (84 persone).
Anche per questa ragione è stato rivolto, da parte di esponenti del mondo istituzionale, politico e intellettuale, un appello per l’adozione di un provvedimento clemenziale che possa, almeno in parte, risolvere l’emergenza attuale.
Una panoramica dell'ultimo decennio
Nei dieci anni di riferimento del Rapporto le forme di privazione e limitazione della libertà personale – e, quindi, le condizioni di effettività di questo diritto fondamentale – sono per molti versi cambiate. Molti sono stati, infatti, i provvedimenti legislativi intervenuti in questa materia (dal carcere alle rems, ai centri per il rimpatrio), che ne hanno modulato diversamente la disciplina ma senza, generalmente, risolverne le criticità più strutturali e profonde.
Questo Rapporto si apriva all’indomani della sentenza Torreggiani, con cui la Corte europea dei diritti umani nel 2013 ha condannato l’Italia per il sovraffollamento penitenziario e le violazioni della dignità dei detenuti che ne sono conseguite. A questa sentenza-pilota è seguita una prima fase di riforma, lenta e timida, ma pur sempre degna di nota. Su impulso della Corte si sono infatti adottati alcuni provvedimenti in funzione deflattiva tanto delle presenze in carcere quanto, più in generale, di tutta l’area del penalmente rilevante e, quindi, dell’incidenza di misure limitative della libertà.
Con la legge 67 del 2014, in particolare, si è delegato il Governo a provvedere a un’ampia deflazione penale, da attuarsi sia sul piano sostanziale - con la previsione generale della non punibilità per particolare tenuità del fatto, un’incisiva depenalizzazione e un’ancora inattuata decarcerizzazione – sia su quello processuale, segnatamente con la messa alla prova dell’imputato, capace di estinguere il reato se proficuamente sostenuta.. Un effetto sicuramente positivo si è anche avuto con la modifica della disciplina della custodia cautelare in carcere, che ne ha accentuato la residualità in favore di misure meno gravose e ha espunto alcune presunzioni di pericolosità tali da imporre il ricorso al carcere. Una garanzia significativa per i detenuti e, in genere, chiunque sia soggetto a misure restrittive della libertà personale è, del resto, derivata dall’istituzione, nel 2013, del Garante nazionale delle persone private della libertà. Insediatosi nel 2016, esso ha potuto rappresentare un presidio importante di controllo sulla correttezza dell’esecuzione delle misure restrittive (non solo penali), ma soprattutto sulla vita penitenziaria, esercitando al tempo stesso una rilevante funzione di stimolo critico per il legislatore.
Anche l’istituzione del Garante è espressione di quelle modifiche legislative degli anni 2013-2015, certamente rilevanti ma che avrebbero necessitato di misure complementari e di un complessivo ripensamento non solo del sistema penitenziario ma anche, più in generale, di quello penale, per valorizzare la funzione di reinserimento sociale della pena (anche mediante il lavoro, l’affettività, l’attività riparatoria), ampliando il ricorso a misure alternative e benefici penitenziari, riducendo anche le presunzioni di pericolosità a ciò ostative. Come, del resto, sarebbe stato necessario riformare la disciplina degli autori di reato infermi di mente, in favore di misure di cura o controllo modulate sulle necessità terapeutiche, rivisitando altresì, per i semi-imputabili, il regime del doppio binario (applicazione congiunta di pena e misura di sicurezza), nell’ottica del minor sacrificio possibile della libertà personale. La riforma Cartabia (d.lgs. 150 del 2022) che ne sarebbe seguita avrebbe certamente introdotto miglioramenti importanti nella disciplina delle misure alternative alla detenzione, perseguendo importanti obiettivi in termini di decarcerizzazione e minimizzazione delle misure detentive, valorizzando le alternative, in funzione tanto deflattiva delle presenze in carcere quanto di promozione dell’efficacia rieducativa della pena e rimuovendo presunzioni di pericolosità ostative alla concessione di misure extracarcerarie. Si è trattato di una riforma tanto più necessaria, in un contesto di nuovo incremento della popolazione penitenziaria, dopo anni di costante – per quanto contenuta- riduzione.
Fino a fine 2015, infatti, le presenze in carcere hanno registrato una tendenziale e progressiva riduzione, anche grazie alle modifiche normative introdotte a seguito della condanna dell’Italia da parte della Cedu con la sentenza “Torreggiani” del 2013. Negli anni successivi si è tuttavia registrato un significativo incremento della popolazione detenuta, per cause imputabili, come sempre, a una molteplicità di fattori, dei quali però due hanno un peso specifico particolare. Da un lato la cessazione dell’efficacia della liberazione anticipata speciale (che ampliava di 30 giorni il beneficio altrimenti conseguibile), tale da determinare un rallentamento delle uscite e, quindi, un aumento delle permanenze in carcere. Dall’altro, l’esiguità del personale assegnato agli uffici dell’esecuzione penale esterna - essenziali per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione e, in particolare, tenuti a predisporre il programma di trattamento per indagati o imputati cui sia stata riconosciuta la sospensione del procedimento con messa alla prova - ha ostacolato il pieno sviluppo di tali misure, che avrebbe comportato una significativa deflazione della popolazione penitenziaria. Ed è ancora una volta la scarsa presenza di camere di sicurezza dove trattenere soggetti sottoposti per poche ore a misura precautelare (es. il fermo di polizia), ad aver determinato il ritorno del fenomeno delle “porte girevoli”- ovvero della detenzione in carcere per una notte di soggetti che non dovrebbero transitarvi - che il legislatore aveva inteso contrastare sin dal 2011, con il d.l. 201.
Se, dunque, la riforma Cartabia è intervenuta in senso migliorativo su molti di questi aspetti, tuttavia permane l’esigenza di riforme organiche e lungimiranti del sistema sanzionatorio che, in particolare, riducano drasticamente il ricorso alla pena detentiva in favore di sanzioni pecuniarie, interdittive, riparative, come pene principali e amplino i presupposti per la concessione delle misure alternative, anche oltre quanto già previsto dal d.lgs. 150 del 2022.
Inoltre, il caso “Cospito” (relativo alla perdurante assegnazione al regime di 41-bis di un detenuto in condizioni sanitarie incompatibili) ha dimostrato l’urgenza di un ripensamento, anche qui radicale, della disciplina del cd “carcere duro” nato, come noto, per impedire i collegamenti con la mafia dal carcere ma estesosi poi, per effetto di varie riforme, tanto nel contenuto quanto nei presupposti di applicazione. A seguito dell’ordinanza-monito della Corte costituzionale (n. 97 del 2021), il d.l. 162 del 2022 è, peraltro, intervenuto sulla disciplina (art. 4-bis ord.pen) del divieto di accesso, ai benefici penitenziari, dei detenuti per reati ostativi, rendendo così relativa da assoluta la presunzione di pericolosità per i detenuti non collaboranti, ma in presenza di presupposti particolarmente stringenti e sostituendo le previsioni relative alla collaborazione impossibile o irrilevante con disposizioni speciali. Lo stesso decreto-legge ha, peraltro, innalzato la durata della pena da espiare per l’accesso alla liberazione condizionale, con effetti rilevanti anche sul tasso di permanenza in carcere. Restano peraltro invariate le condizioni drammatiche che spesso caratterizzano, anche in termini di abusi, il contesto detentivo, come hanno dimostrato anche alcune inchieste relative al periodo del lockdown. La visita realizzata nel 2022 dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa nelle nostre carceri ha evidenziato numerosi casi di violenza e intimidazioni tra detenuti, tali da suggerire l’adozione di misure preventive “attraverso la promozione di un approccio dinamico alla sicurezza”. Inoltre, la sent. 8973/22 della Cassazione ha chiarito che il delitto di tortura non è necessariamente abituale (potendo dunque essere integrato anche con azioni non reiterate) e il concorso di persone nello stesso ben può estendersi a ruoli asimmetrici come quelli del c.d. ausiliatore (o complice) o dell'istigatore. Per simili condotte sono state irrogate anche alcune condanne per tortura, in applicazione della legge medio tempore introdotta e che, tra ombre e luci, ha comunque offerto un presidio significativo a fronte di forme di abuso intollerabili ai danni dei detenuti. Anche per questo le proposte legislative di abrogazione del delitto di tortura, avanzate dalla maggioranza parlamentare nella XIX legislatura, destano particolare preoccupazione.
Ma in una prospettiva più generale, il dato più caratteristico del periodo considerato, sotto il profilo della garanzia della libertà personale, è sicuramente l’asimmetria tra, da un lato, i progetti di riforma complessivi delle “istituzioni totali” (carcere e opg, superati ormai dalle rems) e, dall’altro, l’attuazione dei principi normativi e le scelte operate di volta in volta dal legislatore su settori specifici, spesso incoerenti con gli obiettivi perseguiti in via generale. Soprattutto in settori considerati “sensibili” per l’opinione pubblica perché espressivi di particolare allarme sociale, è infatti frequente la tendenza del legislatore a un uso simbolico e strumentale del diritto penale e a una moltiplicazione delle misure (non solo penali) limitative, in varia misura, della libertà personale.
La tendenza legislativa prevalente si caratterizza, infatti, spesso per un doppio binario sanzionatorio che, a fronte di una tendenziale ragionevolezza nella disciplina dei reati da “colletto bianco”, prevede invece misure di tipo penale (sostanziale e processuale) derogatorie dei principi generali per alcuni reati simbolicamente selezionati come di allarme sociale, secondo la logica del “diritto penale del nemico”. A questo si affianca spesso una serie di misure amministrative limitative della libertà (spesso non solo di movimento), nei confronti di specifiche categorie di cittadini, appartenenti all’area della marginalità sociale, rappresentati come “indesiderabili”.
La politica legislativa recente si caratterizza anche per l’estensione delle misure limitative della libertà personale (solo) formalmente qualificate come amministrative, per eludere lo statuto di garanzia del sistema penale e potersi applicare anche prescindendo dalla prova della commissione di un reato.
Significative in tal senso le misure di prevenzione personali, che nonostante la loro dubbia legittimità costituzionale (proprio in quanto idonee a comportare limitazioni della libertà anche intese, in assenza della commissione di un reato) sono state ribadite finanche dal più organico intervento legislativo in materia (codice antimafia: d.lgs. 159/2011). Ma il settore legislativo maggiormente caratterizzato da misure limitative della libertà di carattere extra-penale è quello dell’immigrazione, che si connota per la previsione di misure peculiari (tanto di sicurezza quanto di prevenzione, a seconda dei presupposti) quali l’espulsione, nonché di una forma di “detenzione” amministrativa, prescindente dalla commissione di reati e soggetta a mera convalida del giudice (peraltro onorario): il trattenimento nei centri per il rimpatrio. Anziché aboliti come da tempo richiesto da varie voci, essi sono stati potenziati nonostante si siano rivelati inefficaci nel realizzare il fine perseguito (garantire l’identificazione e, quindi, l’espulsione delle persone migranti in posizione di irregolarità), al punto da fornire soltanto un quarto dei soggetti da rimpatriare. Si è peraltro omesso di disciplinare compiutamente il trattenimento degli stranieri negli hotspot, che sta acquisendo sempre maggiore importanza per rilievo quantitativo (e non solo), nell’ambito della gestione dei flussi di ingresso nel nostro Paese. L’assenza di regolamentazione (sotto il profilo tanto delle modalità quanto della durata) di una misura che di fatto incide, anche significativamente, sulla libertà personale, rischia dunque di destinare gli stranieri a una sorta di limbo giuridico inaccettabile nella sua indeterminatezza. E incompatibile con quell’esigenza di “assoluto rispetto della dignità della persona” che pur il legislatore si prefigge di realizzare con il potenziamento della rete dei più “tradizionali” centri di identificazione ed espulsione, rinominati “centri di permanenza per i rimpatri”.
Ma analoga distanza tra gli obiettivi perseguiti e la concretezza dell’attuazione normativa, in tema di limitazione della libertà, si registra anche su altri versanti. In primo luogo quello del trattamento degli autori di reato affetti da disagio psichico. In questo settore, infatti, l’insufficienza di posti nelle strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari pone sempre più spesso il problema della misura da applicare a soggetti socialmente pericolosi ma al contempo bisognosi di cure. Con il rischio di oscillazioni tra soluzioni ingiustificatamente e integralmente segregative (detenzione in assenza di cura) e soluzioni in un certo senso “dismissive” quali, ad esempio, la libertà vigilata con obbligo di cure che, in assenza di una rete di assistenza psichiatrica efficiente sul territorio, rischia di frustrare del tutto quelle esigenze di cura che l’interessato ha manifestato con il suo disagio psichico. E che costituivano uno dei punti qualificanti della riforma che ha introdotto, ormai da tempo, le rems in sostituzione degli ospedali psichiatrici giudiziari. Essa, tuttavia, rischia di restare lettera morta in assenza della dotazione delle risorse amministrative essenziali alla realizzazione di misure capaci, più del carcere, di coniugare tanto la funzione rieducativa della pena quanto la prevenzione del rischio di recidiva, assai più contenuto dalle misure alternative alla detenzione o comunque extramurarie. Peraltro, come riportato dal Garante delle misure private della libertà personale, il dato delle persone assegnatevi (632), sommato a quello delle 675 in lista di attesa, raggiunge negli ultimi due anni, con oscillazioni marginali, quasi il doppio del numero (698) di quelle internate negli o.p.g. al momento della loro chiusura, nel 2015. Ciò dimostra l’esigenza di un monitoraggio stringente dei presupposti di assegnazione alle Rems, unitamente alla previsione di indicatori e criteri di priorità che inducano a dare la precedenza ai casi più gravi e non semplicemente ai più risalenti, come invece accade oggi. L’assegnazione alle Rems avviene infatti oggi sulla base di liste di attesa che scorrono in base alla data di richiesta giudiziale della misura sicurezza e non, invece, secondo la necessità del trattamento o la gravità del reato, con esiti inevitabilmente paradossali.
Raccomandazioni
- per risolvere l’emergenza del sovraffollamento, ormai intollerabile, delle carceri, occorre adottare un provvedimento (oggetto di uno specifico appello da parte di esponenti del mondo istituzionale, politico e intellettuale) di amnistia e indulto che potrebbe riguardare le circa 16.000 persone attualmente tenute a scontare reati e residui pena fino a due anni;
- con prospettiva di più ampio respiro, adottare riforme organiche del sistema penale che riducano drasticamente e complessivamente l’area del penalmente rilevante e, in quest’ambito, limitino il ricorso alla pena detentiva in favore di sanzioni pecuniarie, interdittive, riparative, come pene principali, ampliando anche i presupposti per la concessione delle misure alternative (in particolare, la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà, la messa alla prova), anche più di quanto già previsto dal d.lgs. 150 del 2022;
- ripensare radicalmente la disciplina del regime penitenziario speciale di cui all’art. 41-bis ord. pen., circoscrivendone ambito e presupposti di applicazione;
- promuovere attività lavorative e formative per i detenuti, rendendo il tempo della permanenza in carcere meno “vuoto” e più realmente finalizzato al reinserimento sociale;
- riformare la disciplina del trattenimento dei migranti, rivelatosi inefficace persino rispetto al fine del rimpatrio che, secondo la legge, dovrebbe legittimare questa singolare ipotesi di detenzione amministrativa, in assenza di responsabilità penale alcuna;
- procedere a un monitoraggio stringente dei presupposti di assegnazione alle Rems, unitamente alla previsione di indicatori e criteri di priorità che inducano a dare la precedenza ai casi più gravi e non semplicemente ai più risalenti.
Andrea Cirino e Claudio Renne
Quanto valgono la vita e la dignità di un detenuto? Molto poco, specie se, di fronte ad evidenti casi di torture e maltrattamenti, le vittime non possono o non riescono a ottenere giustizia. La storia di Andrea Cirino e Claudio Renne è, a riguardo, a dir poco emblematica. Nel dicembre del 2004 erano entrambi detenuti nel carcere di Asti per reati contro il patrimonio. Era il 10 di quel mese quando Andrea Cirino ebbe un diverbio con uno degli agenti per un motivo non particolarmente grave; fatto sta che che iniziò un litigio nel quale interviene anche Claudio Renne per difendere Cirino. Lo scontro venne presto sedato e la vicenda sembrò terminare lì. Ma in carcere può non funzionare così. Il carcere di Asti non aveva una sezione di massima sicurezza, ma erano comunque disponibili delle celle non attrezzate in un’area separata. Venivano utilizzate come “celle lisce”, celle completamente vuote dove si pestavano più o meno regolarmente i detenuti. Fu questa la sorte toccata ad Andrea e Claudio. Vennero trascinati malamente in due celle lisce e lì vennero innanzitutto riempiti di botte. Ma calci, schiaffi e pugni furono solo l’inizio. Era dicembre, come dicevamo, e le temperature non erano esattamente miti. Quasi completamente senza vestiti, i due detenuti vennero lasciati nelle celle - sprovviste anche di letto e coperta - con le finestre aperte. Venne data loro la minima quantità di acqua necessaria alla sopravvivenza e quasi niente cibo. Veniva loro impedito di dormire, con gli agenti di turno che facevano in modo di tenerli svegli con urla e insulti. Diverse volte al giorno, poi, le “visite” dei poliziotti penitenziari e le botte e i calci in faccia. Finché, un giorno, Andrea Cirino si sveglia in ospedale con il collo completamente viola. “Tentato suicidio”. Peccato che non ricordasse nulla di quella sera - tranne un piatto di pasta “sospetto” consegnatogli dagli agenti - e non avesse a disposizione nulla nella cella con cui avrebbe potuto impiccarsi.
Questa vicenda non è un caso isolato. Moltissime, la maggior parte forse, non vengono neanche denunciate dalle stesse vittime. Oppure finiscono nel dimenticatoio, per un motivo o per un altro, principalmente perché la parola e la denuncia di un detenuto vale molto poco. Sarebbe stato il destino anche di questa storia se un’intercettazione partita per motivi completamente estranei (un’indagine su un traffico di droga interno al carcere nel quale erano coinvolti alcuni agenti) non avesse rivelato la “prassi” delle violenze contro i detenuti, compreso il caso di Claudio e Andrea. Ma ai tempi del primo processo il reato di tortura non era presente nell’ordinamento italiano: da qui il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nel 2017, stabilisce come i due detenuti avessero subito vere e proprie tortura nel carcere di Asti, ammonendo l’Italia e costringendola a risarcire Andrea e Claudio. Il risarcimento di quest’ultimo andrà alla figlia: Claudio morì ad inizio 2017, senza vedersi riconosciuta non tanto la somma pecuniaria, quanto piuttosto il diritto alla dignità e al rispetto.