Il 2023 e il 2024
Libertà di stampa
Come emerge dai dati sulla libertà di stampa resi, come ogni anno, negli ultimi 10 anni, dall’organizzazione Reporter Sans Frontières (RSF), in occasione della giornata mondiale della libertà, nel 2023 l’Italia è risalita di ben diciassette posti in classifica, passando dal cinquantottesimo al quarantunesimo.
Sembra un dato più che confortante. Eppure, le perplessità restano.
Nel Report si legge infatti che il fattore di miglioramento è dovuto all’intervento legislativo, senza ulteriori chiarimenti in proposito. Tuttavia, oltre alla mancanza di una normativa esauriente, efficace e adeguata alle peculiarità dell’informazione in rete, alcune delle norme nel frattempo introdotte hanno destato più di una perplessità, tanto da spingere la Commissione europea a chiedere all’Italia una modifica delle stesse. Si tratta delle norme relative alle nomine Rai, al conflitto di interessi, alla rafforzata tutela del segreto professionale. In particolare, poi, la questione che ha fatto molto discutere e che è ancor oggi al centro delle polemiche riguarda le norme c.d. bavaglio volte a vietare la pubblicazione delle ordinanze di misure cautelari. Che davvero la ratio sia quella di apprestare maggiori garanzie agli imputati è tutto da dimostrare, posto che sarà difficile, se non impossibile, precludere la diffusione di sintesi dei documenti o ricostruzioni “parziali”, se non addirittura “pilotate”. Molto più probabile, invece, rilevare l’eventuale effetto destabilizzante, derivante da tale normativa, rispetto alla libertà di stampa e di manifestazione del pensiero. Sembra infatti, come rilevato dal rapporto annuale predisposto dal Civil liberties union for Europe, che si voglia spostare «l’attenzione dalla necessità di proteggere i giornalisti dalle querele abusive alla necessità di salvaguardare i querelanti e dare priorità ai loro diritti di reputazione rispetto alla libertà di espressione».
Nessun progresso normativo, dunque, sulla tutela dei giornalisti, nonostante gli ultimi dati del Centro Italiano di Coordinamento mostrino che, nel 2023, la polizia ha registrato 98 casi di intimidazioni. Numeri al ribasso, peraltro, rilevato che in molti casi si evita di denunciare.
A tal proposito, il Report mette in luce una preoccupante criticità: «la libertà di stampa in Italia continua a essere minacciata dalle organizzazioni mafiose, soprattutto nel sud del Paese, e da vari gruppi estremisti che compiono atti di violenza. La violenza è aumentata significativamente nel corso della pandemia e continua a ostacolare il lavoro dei professionisti dei media, in particolare durante le manifestazioni». L’Italia rimane tra i Paesi in cui vengono eseguite il più alto numero di Slapp, vale a dire, le querele temerarie poste in essere da politici o imprenditori, con il solo scopo di scoraggiare il lavoro giornalistico.
I timori paventanti per i dati del 2023 trovano purtroppo un’allarmante conferma nella classifica stilata per l’anno 2024, ove si legge che l’Italia è scesa di cinque posizioni rispetto al 2023, e ora si trova al quarantaseiesimo posto su 180. Nel capitolo, dedicato all’Italia, del Rapporto 2024, posto in essere dall’organizzazione Reporter SansFrontières (RSF), emerge un quadro preoccupante da più punti di vista. Sul piano normativo, si assiste a un «paralisi legislativa» che impedisce l’adozione di nuove norme in grado di apprestare migliore tutela all’attività dei giornalisti. A ciò si aggiungono i diversi limiti che i giornalisti incontrano nell’esercizio della loro professione, dalla «criminalizzazione della diffamazione» alle «numerose procedure SLAPP [che] limitano la libertà giornalistica».
Infine, sulla sicurezza dei cronisti, i dati 2024 appaiono talmente destabilizzanti da spingere ad affermare che «i giornalisti che indagano sulla criminalità organizzata e sulla corruzione sono sistematicamente minacciati e talvolta sottoposti a violenza fisica per il loro lavoro investigativo. Le loro auto o case vengono talvolta distrutte da incendi dolosi. Campagne di intimidazione online vengono orchestrate contro coloro che perseguono questi problemi. Una ventina di giornalisti vivono attualmente sotto protezione permanente della polizia dopo essere stati bersaglio di intimidazioni e attacchi».
Informazione e disinformazione
Moltissime, di diversa forza, natura e provenienza le fake news registrate nel 2023.
Risale ad agosto 2023 la notizia sul presunto impegno della provincia di Trento nel combattere una guerra senza precedenti contro lupi e orsi; a causa della loro presenza, si spiegava sui social lo scarso andamento della stagione turistica. Notizia poi smentita dal presidente dell’Agenzia turistica territoriale, secondo il quale «le camere invendute non sono da imputare alla presenza dell’orso, ma al meteo e alla situazione economica che preoccupa la nostra clientela abituale».
Si è diffusa a macchia d’olio, su chat e social network, la presunta notizia degli oltre 850 mila morti per malori improvvisi in Italia certificati dall’Istat. Si è trattato però di una notizia compresa in modo inesatto e divulgata irresponsabilmente.
Come noto, in guerra, l’informazione è un’arma ed è usuale che venga utilizzata come mezzo di propaganda. Destabilizza, però, la diffusione di notizie non confermate. È il caso della presunta strage di bambini israeliani di Hamas. Risale all’ottobre scorso e in brevissimo tempo occupa una posizione centrale in tutti i maggiori quotidiani italiani. Eppure, nemmeno gli inviati sul posto hanno ammesso di poterla confermare.
Anche nell’anno 2024, moltissime le fake news che hanno alimentato la vita sui social media degli italiani: Socialcom, una digital community che monitora e analizza le tendenze della comunicazione web, e Socialdata, un sistema di intelligenza artificiale per analisi e previsioni, ne hanno contate 448 mila. Solo in Italia questi sono i numeri dei post associati a fake news che nel 2024 hanno generato più di 25 milioni di interazioni. Tra le più eclatanti, un fotomontaggio che raffigurava Matteo Salvini con un orecchio bendato. Dietro la falsa rappresentazione della realtà, l’intento satirico e denigratorio di accostare l’immagine del leader politico italiano a quella di Donald Trump, ferito nei giorni precedenti in un attentato. Tra le diverse fake news, la più seguita dagli italiani nel 2024 è stata quella che immortalava gli alieni a Miami. In realtà si trattava solo di un’ombra distorta dalla presenza di luci sul posto. Infine, destabilizzante, da un punto di vista sociale, culturale, morale, la diffusione delle foto della modella più bella del mondo: Emily Pellegrini. La falsità della notizia attiene al fatto che, lungi dal corrispondere a immagini di una donna reale erano solo foto, frutto della tecnologia e dell’intelligenza artificiale che ancora una volta, per ragioni economiche e imprenditoriali, rappresentavano un ideale di perfezione fisica e comportamentale, offrendo un’immagine distorta e deviata della realtà.
Per cercare di comprendere quanto sia dirompente la forza delle fake news, nel 2023, si è svolta la prima edizione dell’indagine “Giovani e fake news” realizzata da YouTrend in collaborazione con la Rappresentanza in Italia della Commissione Europea. Già l’Eurobarometro 2023 dimostrava peraltro che il 68% degli europei affermava di essere stato esposto alla disinformazione. In particolare, poi, dalla ricerca emerge che i giovani abbiano maggiore consapevolezza nel reperimento delle fonti e siano quindi meno propensi a credere a notizie poco attendibili. Il tema, oggetto dell’indagine, era l’Unione europea e, in linea generale, il 48% dei giovani ha risposto in modo esatto, dimostrandosi più informato, ma soprattutto più responsabile nel discernimento delle fonti e quindi delle notizie. Facciamo un esempio.
Una delle “bufale” più diffuse è stata quella secondo cui la Commissione europea avrebbe stabilito, tra gli obiettivi 2030, che la farina di grillo arrivasse a costituire il 15% del totale della farina consumata nell’Unione. Solo il 38% della popolazione è consapevole della falsità della notizia, con un’evidente predominanza dei giovani tra i 18 e i 30 anni.
È con riguardo, poi, alla molteplicità ed eterogeneità delle fake news in circolazione, tenuto conto del comprensibile errore, stante l’assoluta verosimiglianza, ma soprattutto a fronte della evidente consapevolezza del condizionamento politico, emotivo, sociale, che tali notizie possono provocare, che il Presidente della Fondazione per la Sostenibilità digitale, Stefano Epifani, nel dicembre 2024, auspica un approccio integrato nell’affrontare tali sfide. A tal fine, occorre «formare i cittadini al riconoscimento delle fake news, investire in strumenti di verifica tecnologica e definire normative chiare sull’uso di tecnologie come i deepfake. L’obiettivo non è solo mitigare i rischi, ma anche promuovere una cultura digitale basata sulla consapevolezza delle caratteristiche del sistema dei media in cui le persone sono ormai immerse».
Nel Rapporto 2024 su informazione tra AI, Fake News, Deep Fake, presentato dall’Osservatorio per la Sostenibilità digitale nel dicembre 2024, emerge chiaramente che, in un contesto generale in cui la tecnologia amplifica il rischio e la diffusione di disinformazione, è possibile distinguere, in Italia, in base alle diverse aree geografiche, al grado di alfabetizzazione digitale, all’età, l’impatto e la sensibilità verso tali temi. Ecco allora che nei grandi centri urbani il 36% degli intervistati dichiara di verificare costantemente le informazioni, con una quota relativamente bassa (18%) di chi lo fa raramente o mai. Nei piccoli centri, invece, solo il 17% verifica “sempre” le fonti, mentre il 31% controlla raramente o mai. Appare evidente, dunque, il divario culturale e informativo tra contesti urbani e periferici. Il 73% degli intervistati considera i deepfake un rischio per la democrazia, con una differenza tra contesti urbani: nei grandi centri, il 30 % percepisce il fenomeno come “molto rischioso”, nei piccoli centri, solo il 16 % si esprime in tal senso. Altro dato interessante attiene poi alla consapevolezza delle proprie capacità di identificare un deepfake: solo il 9 % degli intervistati dichiara di avere una fiducia elevata nei propri strumenti.
Cyberbullismo
Negli ultimi dieci anni, l’Osservatorio indifesa, realizzato, proprio a partire dall’anno 2014, da Terre des Hommes insieme a OneDay e alla community di ScuolaZoo, ha coinvolto 64.000 ragazzi e ragazze di tutta Italia, per combattere, tramite la loro preziosa partecipazione, ogni forma di prepotenza, discriminazione e abuso perpetrati nel mondo reale e virtuale. Oggi l’Osservatorio rappresenta un punto di osservazione permanente che registra, monitora e propone strategie di miglioramento.
Nell’anno 2023, 3405 ragazzi e ragazze di tutta Italia, tra i 14 e i 26 anni, sono stati coinvolti nelle attività dell’Osservatorio, per realizzare programmi mirati alla conoscenza e alla riflessione sulle varie forme di violenza, bullismo e soprattutto cyberbullismo, nonché per orientare le politiche delle istituzioni e le strategie della comunità educante. I dati che emergono dalla ricerca sono a dir poco allarmanti: 1 adolescente su 2 è vittima di bullismo o cyberbullismo, per lo più per l’aspetto fisico, ma anche per l’origine etnica, per le condizioni economiche o per l’orientamento sessuale; 5 adolescenti su 10 hanno assistito a violenze fisiche o psicologiche, nelle forme di emarginazione, esclusione e finanche umiliazione pubblica; 7 ragazzi su 10 dichiarano di non sentirsi al sicuro quando navigano in rete.
Una ricerca condotta nel 2024 dall’Osservatorio indifesa attesta, poi, che il 65 % dei giovani è stato vittima di violenza e tra questi il 19 % vittima di cyberbullismo.
Diffamazioni, hate speech e sfide pericolose dilagano ormai nella vita onlife degli adolescenti. Destabilizzanti gli effetti: dalla perdita di fiducia in sé e negli altri, all’isolamento, al peggioramento del rendimento scolastico, arrivando persino ad attacchi di panico, depressione e autolesionismo.
È nell’ottica di introdurre una tutela più stringente, fatta di normative più severe, di interventi satisfattivi per le vittime e rieducativi per gli aggressori - soprattutto a fronte del fatto che dal 2016 al 2021 l’80% dei procedimenti penali per discorsi di odio è finito con archiviazione o assoluzione – ma soprattutto di misure preventive e rieducative che è stata adottata la Legge n. 70 del 2024, che reca disposizioni volte a prevenire e contrastare i fenomeni del bullismo e del cyberbullismo.
In particolare, intervenendo sulla Legge n. 71 del 2017, la legge del 2024 ne estende il perimetro di applicazione, incrementa le risorse a disposizione per campagne informative di prevenzione e di sensibilizzazione e prevede che le scuole che lo richiedano possano offrire un servizio di sostegno psicologico. Si prevede, inoltre, un importante percorso di mediazione con finalità rieducativa, prima dell’eventuale adozione di misure coercitive nei confronti dei minori responsabili di atti di cyberbullismo. La Legge istituisce, infine, la «Giornata del rispetto», quale momento specifico di approfondimento sui temi del rispetto, della sensibilizzazione, della non violenza psicologica e fisica, del contrasto di ogni forma di discriminazione e prevaricazione. La Giornata ricorre il giorno 20 gennaio.
Negazionismo
Come noto, in Italia il negazionismo non è reato. Con la legge n. 115 del 2016 di attuazione della decisione quadro 2008/913/GAI, esso è qualificato quale circostanza aggravante speciale dei reati di propaganda razzista, di istigazione e di incitamento di atti di discriminazione commessi per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Questa la soluzione scelta dopo accesi dibattiti sul tema. La libertà di manifestazione del pensiero va garantita anche a fronte di opinioni sgradevoli, scioccanti, offensive. Si esclude, dunque, la scorciatoia giuridica del divieto, credendo, in nome di un’equilibrata prudenza costituzionale, che la via da percorrere sia quella di un’adeguata e costante educazione culturale e sociale. Non sempre però tale strada è priva di ostacoli.
È il 9 novembre 2023 quando, probabilmente in preda a uno stato di ira e di rabbia, la professoressa Hanane Hammoud, docente di matematica alla media superiore internazionale di H-Farm in provincia Treviso, ha postato sul suo profilo Instagram un video drammatico sulla guerra tra Israele e Palestina, aggiungendo la frase «Andate all’inferno, Hitler aveva ragione su di voi ebrei».
Una storia che è rimasta in rete per una decina di minuti, dopo i quali l’insegnante ha deciso di rimuoverla. Un tempo sufficiente però per consentire a una studentessa di immortalare il contenuto pubblicato con un semplice screenshot. Alla velocità della luce, rectius della rete, il video ha fatto il giro della scuola, della città, del Paese, dell’intera comunità digitale. Inevitabile la sospensione della docente. Indubbio il rammarico della comunità educante, da sempre impegnata a promuovere modelli di inclusività, multiculturalità, rispetto e tutela della dignità.
Nel 2024, altri due e altrettanto significativi i contesti in cui si è parlato di negazionismo.
Sul piano ambientale, si è sviluppato il c.d. negazionismo climatico, in base al quale, “il cambiamento climatico non esiste”, o peggio, è un’invenzione volta a privare l’uomo delle sue libertà. Tale corrente di pensiero, mediante un uso distorto dei dati scientifici, minimizza gli impatti del riscaldamento globale e incrementa il senso di sfiducia nella scienza e nelle tecnologie rinnovabili. Sul piano sanitario, fa discutere, più di recente, il c.d. “negazionismo sanitario”. Si tratta dell’espressione cui si ricorre per indicare l’atteggiamento di lassismo e di disarmo nei confronti di chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale. La possibilità di rimuovere le sanzioni – possibilità sulla quale si sta decidendo - potrebbe di fatto finire con l’avallare la tesi dei no vax, incrementando il senso di sfiducia nei confronti della scienza, delle istituzioni e dischiudendo uno scenario di ancor più destabilizzante confusione, di fronte a eventuali nuove emergenze sanitarie.
Le problematiche legate alla diffusione di idee negazioniste riaccendono i riflettori su una delle questioni di maggior rilievo in tema di libera manifestazione del pensiero, ovvero la ricerca del giusto equilibrio. Il pluralismo ideologico, quale pilastro portante la democraticità dell’ordinamento, può consentire lo sviluppo e la divulgazione di qualsiasi opinione, finanche sovversiva e anti-sistema, o deve arrestarsi, di fronte a tali tendenze, legittimando così anche il ricorso a strumenti antidemocratici, per salvaguardare, paradossalmente, proprio la democraticità dell’ordinamento stesso? Questione antica, ma di stringente attualità.
Tutto ruota attorno al rapporto tra Oikos e Polis, tra privato e pubblico. Fino a che punto va garantita la libertà di manifestazione del pensiero, come diritto del cittadino consacrato all’art. 21 della Costituzione, rispetto al complesso delle regole che disciplina il vivere civile di una comunità democratica?
Tanto si è discusso attorno al c.d. “paradosso della tolleranza” (Karl Popper) – in nome del quale l’intolleranza nei confronti degli intolleranti viene giustificata per garantire alla società di essere democratica, rectius tollerante – tanto oggi si continua a discutere.
Basti pensare, a titolo meramente esemplificativo, alla presenza di Tony Effe al Concerto di Capodanno 2024. Il Comune di Roma invita il famoso cantante per l’esibizione dell’ultimo dell’anno. Critiche feroci sul piano politico e sociale: diversi i partiti e le associazioni femministe della Capitale che disapprovano l’invito. Al centro delle polemiche i troppi i riferimenti sessisti e violenti nei testi delle sue canzoni di solo (o quasi) dissing. Ecco allora il dietrofront del Comune e l’estromissione del cantante dalla serata. Può una società dar spazio a parole di violenza, discriminazione, in nome del diritto del singolo a manifestare il proprio pensiero …in musica?
La questione ha fatto molto discutere, anche a fronte della presenza del noto cantante al Concerto del Palazzetto dello Sport all’Eur. Avendo però Roma Capitale e il Ministero delle Finanze partecipazioni al 10 % e al 90 % nella società Eur Spa che gestisce il Palazzetto, il Codacons ha inviato una diffida urgente al sindaco di Roma e al Mef, ove si legge che posto che «il sindaco di Roma comproprietario del Palaeur insieme al Mef ha ritenuto pericoloso per ordine pubblico, in relazione alle continue violenze alle donne e ai quotidiani femminicidi, e ha vietato una piazza a chi se ne fa da anni portatore con testi violenti e sessisti (…), ritenuto che gli stessi pericoli sono derivanti dall’ipocrita spostamento da una piazza a un teatro ambedue sotto il controllo e la necessità di autorizzazione da parte di enti pubblici» si diffida Eur Spa, il Ministero dell’economia in persona del Ministro, e il Sindaco di Roma a «non concedere il Palaeur per esibizioni di cantanti che inneggiano alla violenza verso le donne». Che il Campidoglio si sia poi affannato nella ricerca disperata di altri cantanti per il concerto, che Tony Effe si sia esibito o meno nella Capitale, che andrà a Sanremo, continuando a far discutere di sè, poco importa. Sono questioni che, prima o poi, troveranno soluzione.
Quel che importa e che fa riflettere è la strada percorsa per trovare la soluzione, perché essa rappresenta la scelta con cui l’ordinamento individua il punto di equilibrio tra la libertà di manifestazione del pensiero e i suoi limiti, perché se è vero che la libertà di manifestazione del pensiero è pietra angolare di ogni ordinamento democratico, è altresì indubbio che tale libertà non è, né può essere, priva di limiti.
Una panoramica degli ultimi dieci anni
Molte le questioni che, nel corso dell’ultimo decennio, hanno tenuto accese le luci dei riflettori sulla libertà di espressione e di informazione.
Il difficile bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della riservatezza, ad esempio, ha suscitato orientamenti giurisprudenziali altalenanti, contraddittori e spesso problematici. È stato soprattutto l’irrompere delle nuove tecnologie, dei nuovi mezzi di comunicazione in rete a provocare effetti dirompenti e rendere complicato, per l’autorità giudiziaria, scegliere la soluzione più ragionevole. È in tale contesto che la Corte costituzionale ha invitato il legislatore a una rimodulazione della normativa vigente, in grado di garantire adeguatamente, tenuto conto delle nuove forme di comunicazione e dell’uso spesso distorto dei social network, la libertà di manifestazione del pensiero e di informare da un lato e la tutela della reputazione e, più in generale, dei diritti fondamentali della persona umana, dall’altro (sentenza n. 132 del 2020).
Con riguardo a tali diritti, particolare rilievo assume la tutela dei minori. Soprattutto a fronte delle violenze perpetrate nel mondo reale e nella società digitale, la garanzia apprestata è apparsa non di rado poco satisfattiva e adeguata alle delicate peculiarità del caso.
La democraticità dell’ordinamento stesso è stata più volte messa in discussione a fronte della diffusione di posizioni negazioniste, spingendo a interrogarsi sul se e con quali strumenti sia possibile limitare il pluralismo ideologico, senza compromettere i pilastri portanti della forma di stato.
Frequente e alle volte allarmante la diffusione di fake news e deepfake, soprattutto durante l’emergenza pandemica da Covid-19, ma anche successivamente, nei settori più disparati: dall’economia alla sanità, passando per le campagne elettorali, toccando finanche la vita del Papa, fino ad arrivare, se non a travolgere, la già drammatica situazione del conflitto russo-ucraino.
Unico, il filo rosso che lega le situazioni più critiche: la mancanza - sebbene da più parti invocato e auspicato - di un intervento legislativo in grado di scegliere le soluzioni che maggiormente si attagliano alla società che cambia. Vero è che l’impatto delle nuove tecnologie, la crescente pervasività della rete e delle sue insidie rendono il diritto tardigrado e spesso misoneista.
Tuttavia, è proprio questo il compito del diritto: ubi societas, ibi ius. Laddove la società cambia, muta, si evolve, subentra l’esigenza di una diversa regolazione. Ecco allora che le istituzioni e, in primis, il legislatore, devono giocare un ruolo decisivo, al fine di salvaguardare la pietra angolare della democraticità, qual è la libertà di manifestazione del pensiero, nelle sue molteplici forme e dimensioni.
Giuseppe Scalarini
Mussolini lo aveva sempre odiato.
Fin da quando, nel novembre del 1914, lo aveva disegnato nella vignetta “Giuda” dove il futuro duce, armato di pugnale e con in mano i trenta denari, si avvicinava alle spalle di Cristo (il Socialismo) per pugnalarlo alle spalle.
Eppure quella vignetta di Giuseppe Scalarini, oltre ad essere straordinaria sul piano artistico, era assolutamente veritiera. Mussolini, infatti, per fondare il Popolo d’Italia aveva ricevuto ingenti somme da vari imprenditori genovesi e milanesi.
Ma, come in altre occasioni, al padre del fascismo la verità non stava per nulla simpatica. E così quella vignetta di Scalarini se la legò al dito e diversi anni dopo gliela fece pagare. Nel novembre del 1926 Giuseppe venne infatti picchiato selvaggiamente a Milano da un squadraccia di camicie nere. Ne uscì con la mandibola fratturata e con una commozione cerebrale. Dopo un breve periodo in ospedale venne arrestato e condannato dal Tribunale speciale al confino, dove resterà fino al 1929. Tornato a Milano diventerà un sorvegliato speciale, e il regime gli impedirà di firmare qualsiasi opera realizzata.
E dire che Scalarini aveva anche una firma speciale, una specie di rebus, essendo composta dal disegno di una scala e dal suffisso rini. Aveva iniziato ad usarla presto, come presto aveva iniziato a disegnare. Nato a Mantova nel 1873, a sedici anni si diploma alle scuole tecniche e dimostra una grande passione per il disegno che lo porterà, pochi anni dopo, a realizzare la sua prima mostra e a trasferirsi prima a Parigi e poi a Venezia.
Di chiare idee socialiste, la sua crescita artistica andrà di pari passo con quella politica. Finì in breve tempo registrato nei casellari della polizia come “frequentatore di affiliati a partiti sovversivi”, sarà condannato per reati contro lo Stato a causa dei suoi disegni antimilitaristi, tema che accompagnerà tutta la sua produzione e che lo porterà a realizzare vignette per L’Avanti, dove la sua firma compare per la prima volta il 22 ottobre 1911, durante la guerra di Libia. Una collaborazione ricchissima, migliaia di vignette, interrotta solo nel 1926 a causa delle leggi speciali.
L’inutilità della guerra, lo sfruttamento degli ultimi, la violenza fascista, la complicità della monarchia e dei capitalisti nella nascita del regime sono tutti temi che tratta fino a quando non viene arrestato, rischiando più volte la vita, essendo destinatario di varie spedizioni punitive.
Dopo il confino verrà nuovamente arrestato nel '40 e internato nel campo di concentramento di Vasto. Tornato in libertà, dopo l’8 settembre sfugge miracolosamente alla polizia di Salò.
Morirà a Milano il 30 dicembre 1948, dopo aver realizzato una vasta e straordinaria produzione artistica.