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Lavoro

Il 2023 e il 2024


Le contraddizioni e gli aspetti intricati della crescita dell’occupazione e delle dinamiche retributive

di Lorenzo Fanoli


Nel suo rapporto trimestrale sul mercato del lavoro pubblicato nel marzo 2024 l’Istat ha stimato un aumento di quasi 500 mila occupati nei primi nove mesi del 2024 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In particolare nel terzo trimestre del 2024 il loro numero complessivo ha superato la soglia dei 24 milioni: si tratta di un valore record mai registrato fino a oggi. In effetti nei dieci anni trascorsi dalla pubblicazione del nostro Primo Rapporto sullo Stato dei Diritti In Italia il numero complessivo delle persone occupate è cresciuto di oltre un milione e settecentomila milioni di unità (una variazione percentuale del +7,7%). In particolare i lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato sono aumentati del 14,2%, mentre quelli a termine del 40%. Gli autonomi sono invece diminuiti del 17,4%(2). Nel considerare questi dati bisogna tenere ben presenti i cambiamenti del quadro legislativo che si sono susseguiti a partire dal Jobs Act del 2014. Quella riforma aveva allargato e ampliato la possibilità per le aziende di ricorrere ai contratti a tempo determinato e rimodulato la disciplina dei licenziamenti abolendo, di fatto, le garanzie stabilite dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Sempre in tema di mutamenti legislativi va anche considerato che si è modificata successivamente e più volte la disciplina dei contratti a termine attraverso misure dapprima limitative, contenute nel “Decreto dignità” emanato dal primo Governo Conte nel 2018, e altre, meno restrittive e connesse alle dinamiche della contrattazione collettiva, messe in atto dall’attuale Governo Meloni nell’agosto del 2023. In questo quadro e sempre in relazione all’azione del Legislatore hanno giocato un loro ruolo specifico anche le politiche legate all’implementazione delle forme di sostegno al reddito, rappresentate dal Reddito di Inclusione nel 2018 e dal Reddito di Cittadinanza nel 2019, che è stato abolito dal Governo Meloni e sostituito con il più restrittivo assegno di inclusione, condizionato al valore reddituale del modello Isee e a un percorso personalizzato di attivazione e inclusione sociale. A tal proposito si è diffusa l’opinione, sostenuta in maniera particolare dalle forze politiche componenti l’attuale maggioranza che, in particolare il Reddito di Cittadinanza, che aveva come principale obiettivo quello di contrastare e arginare la diffusione di fenomeni di povertà assoluta e relativa, abbia avuto tra i suoi principali effetti quello di scoraggiare l’accesso al mercato del lavoro da parte di molti potenziali lavoratori. Nel complesso e in buona sostanza, sul terreno politico, il decennio trascorso tra il 2013 e il 2023 è stato caratterizzato da un susseguirsi di misure e iniziative contrastate di flessibilizzazione, allo scopo di facilitare l’accesso al mercato del lavoro, da un lato, e di tentativi, dall’altro, di difesa delle più tradizionali e di introduzione di nuove forme di garanzia con l’obiettivo di rendere più stabile, sicura e meno precaria la condizione della maggioranza della popolazione e in particolare delle fasce sociali più deboli.

Dal nostro punto di vista, nel valutare le dinamiche dell’occupazione e del reddito di questo decennio e in completa assonanza con gli articoli 4 e 36 della nostra Costituzione, appare opportuno provare ad analizzare i diversi fenomeni per verificare contestualmente se l’incremento complessivo del numero degli occupati corrisponde a un effettivo allargamento delle opportunità di lavoro per l’intero insieme del corpo sociale e se a tale incremento si associa anche un miglioramento complessivo delle condizioni sociali ed economiche dei lavoratori. Nel fare ciò non possiamo che iniziare dal considerare l’evidenza drammatica di quel irriducibile contrasto emerso nel periodo pandemico tra chi, disponendo di adeguate garanzie lavorative e di un background stabile di relazioni e socio-economico, è riuscito a resistere limitando il proprio disagio e chi, invece, si è trovato in condizioni di precarietà lavorativa, abitativa e reddituale e ha visto degenerare in maniera drammatica la propria situazione e le proprie prospettive di vita. Come avevamo infatti considerato nel nostro Rapporto del 2022, la crisi pandemica aveva determinato un forte incremento delle condizioni di precarietà di un insieme compreso tra 7 e 9 milioni di persone che nel nostro paese si trovavano in una condizione lavorativa a bassa o nulla tutela. In questo contesto abbiamo letto allora il forte richiamo espresso con queste parole “Dignità è contrastare le povertà, la precarietà disperata e senza orizzonte che purtroppo mortifica le speranze di tante persone” dal Presidente Mattarella nel suo discorso di insediamento del 2 febbraio 2022. Con questo spirito e come negli scorsi riteniamo quindi necessario partire da una valutazione di alcuni indicatori disponibili che permettono di stimare dimensioni e fenomeni di precarietà lavorativa e precisamente i dati relativi alla disoccupazione, alle percentuali di lavoratori irregolari, al part time involontario e infine all’incidenza di giovani NEET(3) .


Pur in riduzione rimane ampia l’area più critica della precarietà lavorativa


Pur premettendo che nell’ultimo biennio tutti i fenomeni considerati risultano in diminuzione, la loro dimensione rimane comunque decisamente rilevante e critica:

  • nel 2023 le persone in cerca di occupazione sono state pari a un milione e novecentomila, nel 2013 erano oltre tre milioni e trecento mila;
  • le persone che lavoravano con contratto a termine da più di cinque anni nel 2022 erano state circa 3 milioni e novecentomila: il 17% degli occupati, nel 2018 la loro incidenza era di poco superiore (17,8%;)
  • i lavoratori irregolari stimati dall’Istat rappresentano l’11,3% dell’intero insieme degli occupati a livello nazionale (quindi circa 2,5 milioni), la loro percentuale si è ridotta in maniera non particolarmente significativa negli ultimi dieci anni (nel 2013 era stata stimata attorno al 12,8%);
  • i lavoratori in part time involontario registrati a fine 2021 erano il 10,2% sull’occupazione totale (il 5,6% tra gli uomini oltre il 19% tra le donne). La loro percentuale si è ridotta di circa 1,5 punti percentuali rispetto al 2018, bisogna considerare che secondo i dati rilevati da Istat nel 2023, in Italia il 54,8 per cento dei lavoratori a tempo parziale tra 15 e 64 anni vorrebbe lavorare di più e l’incidenza sale fino al 69,3 per cento tra gli uomini (e fino al 74,2 nella fascia di età tra i 25 e i 54 anni), contro il 50,2 per cento per le donne, che sono la maggioranza delle persone con contratto di lavoro a tempo determinato.
  • i giovani NEET sono circa 1,4 milioni e corrispondono al 16,1% delle persone di pari età, anche in questo caso la situazione appare in miglioramento e rispetto dieci anni fa la loro incidenza si è ridotta di oltre dieci punti ma resta sopra la media Ue di oltre 7 punti e più bassa solo a quello della Romania.


Cresce l’occupazione ma non per tutti in egual misura e non abbastanza per colmare i divari di genere e generazionali


Passando a guardare con più dettaglio ai dati relativi alle dinamiche occupazionali, ve ne sono da sottolineare e in particolare quelle relative all’andamento dell’occupazione per genere e per fasce d’età. Alla fine del 2023 gli uomini occupati erano circa 13 milioni e seicentomila per un tasso di attività del 70,7%. Le donne invece erano circa 10 milioni e settanta mila per un tasso di attività del 53%. Nei dieci anni considerati l’occupazione femminile è cresciuta in misura leggermente maggiore rispetto a quella dagli uomini (+9,7% vs. 8,8%); con questo ritmo però ci vorrebbero quasi 29 anni per raggiungere la stessa proporzione di uomini e donne occupate. L’altro importante e fondamentale divario che caratterizza l’occupazione nel nostro paese è quello generazionale. I giovani occupati tra i 29 e i 34 anni sono oltre 4 milioni e duecento mila, mentre gli adulti con più di 34 anni di età occupati sono oltre 18 milioni e ottocentomila. I primi sono aumentati in dieci anni di circa 104 mila unità (+4%) gli altri invece quasi di 1,5 milione (+8,9%). In linea con l’andamento demografico anche la forza lavoro del nostro paese è sempre più anziana. Secondo i dati pubblicati dall’Istat, negli ultimi cinque anni il numero di cittadini stranieri occupati nel nostro Paese è cresciuto di poco meno di quarantamila unità.


Qualità del lavoro e “grandi dimissioni”


A seguito della pandemia è cresciuta l’attenzione riguardo le tematiche connesse al rapporto tra qualità della vita e qualità del lavoro e in particolare alla dimensione del fenomeno delle “grandi dimissioni” che è stato approfondito direttamente da diversi studi anche relativi alla situazione del nostro paese(4)

Nell’edizione del 2022 del nostro Rapporto avevamo iniziato ad analizzare il fenomeno sulla base dei dati pubblicati dall’INPS relativi alle dinamiche delle cessazioni e attivazioni dei rapporti di lavoro. Allora avevamo segnalato che nelle valutazioni su questo fenomeno le interpretazioni più diffuse si collocavano sostanzialmente lungo una polarizzazione che, da un lato, lo considerava determinato dalla combinazione di una maggiore vivacità del mercato del lavoro e dal consolidamento di una cultura più flessibile e imprenditoriale da parte di quei lavoratori più giovani non disposti ad accontentarsi di condizioni lavorative che non gli offrono prospettive di crescita e soddisfazione personale; dall’altro lato della polarizzazione, invece, si tendeva a sottolineare l’aspetto di critica radicale all’intera organizzazione e cultura del lavoro finora preminente. Entrambe le interpretazioni sembrano essere confermate da differenti evidenze empiriche a seconda dei diversi approcci interpretativi adottati dagli osservatori. In effetti e considerando la forte divaricazione che si sta delineando tra un mercato del lavoro “povero” e poco qualificato da un lato e, dall’altro da una forte domanda di personale altamente qualificato e in possesso di nuove competenze, soprattutto in ambito digitale, è del tutto ipotizzabile che l’incremento del numero di persone che si dimettono volontariamente dal lavoro sia correlato con entrambe le dimensioni.

Guardando agli andamenti dei dati dell’Osservatorio statistico dell’INPS sulle dimissioni volontarie, tra il 2014 e il 2023 risulta piuttosto evidente un incremento costante del fenomeno con la sola eccezione del 2020 (anno più critico della pandemia) e poi con un’attenuazione l’anno scorso. In termini assoluti il numero di dimissioni volontarie registrate nel 2023 rispetto al 2014 si è incrementato di oltre 900 mila unità (+73,9%). In generale, quindi, si conferma una tendenza a cercare nuove soluzioni nel corso della propria carriera lavorativa. Tale tendenza risulta decisamente più accentuata nelle attività maggiormente innovative come i servizi di informazione e le professionalità ad alto contenuto tecnologico e scientifico. Va però sottolineata una crescente dinamica incrementale delle dimissioni anche nei servizi amministrativi di carattere pubblico, soprattutto in ambito sanitario. Per quanto poi attiene alle attività industriali e manifatturiere gli incrementi si collocano in un range compreso tra il 65% e il 70%. In sintesi, i dati considerati rendono l’immagine di una crescita delle dimissioni volontarie che, dal 2021, riguarda ogni anno quasi il 10% dell’insieme di tutti gli occupati e la cui dinamica è correlata al contenuto di innovazione tecnologica e di valore economico dell’attività svolta dal lavoratore potenzialmente dimissionario. Va segnalato che a seguito del recente “decreto lavoro” del governo Meloni sono cambiati i requisiti per accedere alla Naspi (il supporto economico dello Stato per chi, in maniera involontaria, si ritrovi a essere in una condizione di disoccupazione) che dal 2025 spetterà anche in caso di dimissioni volontarie; d’altro canto chi ha avuto contratti discontinui rischia di perdere il sussidio di disoccupazione. Infatti due emendamenti, inseriti nella Manovra e nel Collegato lavoro, ridefiniscono il quadro tracciato dal Jobs Act nel 2025. Da una parte l’apertura ai lavoratori che si dimettono volontariamente, dall’altra una stretta per evitare comportamenti opportunistici, che però potrebbe tradursi in un boomerang per alcune categorie. C’è il rischio che al nuovo diritto corrisponda una penalizzazione per chi si trova a perdere il lavoro involontariamente: se da una parte la modifica mira a prevenire eventuali abusi, come per esempio le dimissioni “strategiche” seguite da accordi per ottenere il sussidio, dall’altra c’è il rischio che migliaia di lavoratori vengano penalizzati, soprattutto i più fragili che si barcamenano fra situazioni di instabilità, come contratti brevi o discontinui. Su questo fronte, opposizioni e sindacati sono già in stato d’allerta. I lavoratori dovranno aver maturato almeno 13 settimane di contribuzione dopo l’ultimo rapporto di lavoro cessato. Si tratta di una modifica significativa rispetto alla normativa attuale, che prevede l’accesso al sussidio solo in caso di disoccupazione involontaria (licenziamento o scadenza di un contratto). La misura viene accolta positivamente da chi sottolinea l’importanza di poter offrire una “via di fuga” da situazioni lavorative infelici in cui potrebbe essere difficoltoso per il dipendente provare di essere stato vittima di vessazioni o mobbing. Nel complesso, comunque, la crescita costante dei numeri delle persone che lasciano il proprio posto di lavoro per cercare nuove opportunità rappresenta ormai un elemento strutturale nel nostro paese, assieme all’invecchiamento della forza lavoro, alle persistenti e significative incidenze di lavoratori poveri e di part-time involontario, alla polarizzazione tra specializzati e non specializzati e alla crescente difficoltà che riguarda ormai circa la metà delle imprese nel trovare lavoratori disposti a essere inseriti in azienda. A tutto questo si associa un mutamento della cultura del lavoro tra i giovani che, potendolo fare, esprimono un’attenzione sempre più crescente alla qualità della propria vita da perseguire al di fuori dai contesti lavorativi.




Le dinamiche retributive: poca crescita per pochi


Un altro tema fondamentale di carattere strutturale che abbiamo più volte trattato nelle passate edizioni del Rapporto riguarda il valore delle retribuzioni del lavoro e conseguentemente la dimensione sempre più crescente di lavoratori poveri. Su questo terreno i dati rilevati da Eurostat certificano un miglioramento della situazione tra il 2021 e il 2022 con un’incidenza che è passata dal 21,6% al 17,3%, ma che risulta oltre 6 punti percentuali superiore alla media UE e colloca l’Italia al penultimo posto tra i ventiquattro di cui viene fornito il dato puntuale.





Questo elemento, pur significativo, non è sufficiente da solo a fornire il quadro completo delle distribuzioni e del valore delle retribuzioni effettivamente percepite e delle differenti dinamiche che si sono verificate nel medio periodo nel nostro paese. Da questo punto di vista risulta particolarmente utile una lettura più attenta delle informazioni contenute nelle banche dati dell’INPS. Considerando in primo luogo la distribuzione delle retribuzioni annuali lorde dei lavoratori delle imprese private, illustrata nel grafico seguente, emerge che nel 2022 la metà dei dipendenti aveva percepito al massimo venti mila euro lordi all’anno, corrispondenti a uno stipendio netto mensile di circa 1.400 euro. In termini assoluti si tratta di poco meno di otto milioni e mezzo di persone. Bisogna poi considerare che sono oltre 6 milioni le persone che hanno ottenuto una retribuzione inferiore a 15 mila euro l’anno e quindi inferiore a mille euro al mese: il 37% dell’intero insieme degli addetti nelle imprese private e quindi ben più di quel 17% indicato come riferimento da Eurostat.





Di particolare importanza è anche la valutazione sulle dinamiche retributive che si sono verificate dal 2014 al 2022 dalle quali risulta evidente che, nel complesso, l’incremento medio delle retribuzioni del 7% è stato di sei punti percentuali inferiore a quello degli indici dei prezzi al consumo e che, conseguentemente, almeno fino allo scorso anno, a un incremento del numero degli occupati non solo non è corrisposto un analogo incremento dei redditi dei lavoratori ma, al contrario, il loro potere di acquisto si è ridotto, soprattutto dopo il periodo pandemico.





Un altro dato molto significativo è costituito dalle diverse dinamiche che si sono verificate nelle differenti fasce retributive, che testimoniano come sia in atto una forte divaricazione tra una maggioranza di lavoratori con retribuzioni medio-basse che non crescono e conseguentemente stanno costantemente perdendo potere d’acquisto e una minoranza di persone con alte retribuzioni, superiori a 80 mila euro l’anno che, invece, riescono a ottenere condizioni retributive in crescita anche se non del tutto al passo con l’inflazione. Infatti, se l’incremento complessivo degli stipendi di chi guadagna meno di 20 mila euro l’anno è cresciuto in otto anni dell’1,1% quello di coloro che si trovano oltre la soglia degli 80 mila è aumentato del 4,1%. In sostanza non solo si è incrementato il gap tra l’andamento dei prezzi al consumo e gli stipendi di tutti i dipendenti del settore privato ma questa dinamica risulta particolarmente più grave e critica per chi dispone di uno stipendio medio-basso.






Il gap retributivo tra uomini e donne si riduce in maniera estremamente lenta


Un altro tema significativo che emerge dall’analisi dei dati delle retribuzioni è costituito dalla disparità di genere. Nel 2022 complessivamente la retribuzione media annua degli uomini è stata superiore del 43,3% rispetto a quella delle donne. Ciò non significa direttamente che vi sia una disparità di trattamento economico a parità di mansioni e lavoro tra uomini e donne, ma mette in evidenza chiaramente come vi sia una forte disparità dal punto di vista delle opportunità che il mercato del lavoro che, di fatto, discrimina ancora notevolmente le donne. Peraltro la situazione sembra sostanzialmente stabile nel medio periodo. Infatti tra il 2014 e il 2022 il differenziale retributivo tra uomini e donne si è ridotto di soli 2,7 punti percentuali passando dal 46% al 43,3%. Al ritmo attuale, il tempo necessario per colmare questo gap sarebbe di oltre 120 anni!



Povertà, reddito di cittadinanza e salario minimo legale


Nel 2023 la stima preliminare elaborata da Istat dell’incidenza di povertà assoluta in Italia è stata pari all’8,5 per cento tra le famiglie (8,3 per cento nel 2022) e al 9,8 per cento tra gli individui (9,7 per cento nel 2022). Seppure in un quadro di sostanziale stabilità rispetto all’anno precedente, si raggiungono livelli mai toccati in precedenza, per un totale di 2 milioni 235 mila famiglie e di 5 milioni 752 mila individui in povertà. Nell’arco degli ultimi dieci anni, l’incidenza della povertà assoluta a livello familiare è salita dal 6,2 all’8,5 per cento, e quella individuale dal 6,9 al 9,8 per cento. Complessivamente, rispetto al 2014 vi sono oltre 650 mila famiglie e 1,6 milioni di persone in più che si trovano in condizioni di povertà.





Guardando alle dinamiche che si sono verificate nel decennio si evidenzia un balzo in avanti delle percentuali di persone e famiglie in condizioni povertà nel 2017; nel 2018 il dato si è poi stabilizzato per poi decrescere a partire dal 2019 grazie in particolare all’introduzione delle due misure di sostegno al reddito che sono state messe in campo prima dal Governo Gentiloni attraverso il Reddito di Inclusione (REI) e poi dal primo Governo Conte con il Reddito di Cittadinanza (RdC). Poi, nel 2020 nel primo anno della pandemia da COVID-19, la povertà assoluta ha avuto un’accelerazione significativa, portando l’incidenza familiare al 7,8 per cento e quella individuale al 9,1 per cento, per poi stabilizzarsi nel 2021. In questo biennio il reddito delle famiglie è stato sostenuto da interventi di redistribuzione e di sostegno all’economia, che, nell’insieme, hanno contribuito a contenere i rischi di aumento delle condizioni di povertà. Tra questi interventi, il RdC ha svolto un ruolo chiave come strumento di protezione sociale. Al suo fianco hanno operato il Reddito di Inclusione, sostituito proprio dal RdC nel corso del 2019 con una coda nel 2020, e il Reddito di Emergenza, erogato nel 2020 e nel 2021 specificatamente per contrastare gli effetti della pandemia. Il RdC è stato sostituito a sua volta dal Supporto per la Formazione e il Lavoro, erogato a partire dal 1º settembre 2023, e dall’Assegno di Inclusione, erogato a partire dal 1º gennaio 2024. Riguardo a quest’ultima misura, che riduce notevolmente la platea dei beneficiari, va tuttavia sottolineato che proprio recentemente, nel mese di maggio 2024, in un documento di lavoro dello staff della Commissione Europea sulla convergenza sociale è stato considerato che la sostituzione del sussidio universale con l’Assegno di inclusione, i cui criteri di accesso non sono basati sulla prova dei mezzi ma solo sulla presenza in famiglia di over 60, minori o disabili, “riduce in maniera significativa la copertura dello schema di reddito minimo”. In particolare, secondo quanto stimato dal gruppo di lavoro della Commissione, la riforma del governo Meloni “ridurrà le famiglie beneficiarie del 40% tra quelle formate da cittadini italiani e del 66% tra quelle con altra nazionalità”. Avendo come effetto finale “una maggiore incidenza della povertà assoluta e infantile rispettivamente di 0,8 punti percentuali e 0,5 punti percentuali rispetto al regime precedente.

Secondo quanto illustrato dall’Istat in occasione dell’audizione dell’11 luglio 2023 presso l’XI Commissione (lavoro pubblico e privato) della Camera dei Deputati circa l’11% dei lavoratori dipendenti è da considerare a rischio di povertà. Si tratta di circa 2,4 milioni di lavoratori e sono oltre 4,6 milioni i lavoratori dipendenti a bassa retribuzione e inferiore a 12mila euro l’anno.

In particolare riguardo alle retribuzioni orarie:

  • i rapporti di lavoro con retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi sono quasi un quinto del totale (il 18,2%, circa 3,6 milioni di rapporti) e coinvolgono circa 3 milioni di lavoratori;
  • i rapporti conretribuzione inferiore ai 10 euro salgono al 30,6% (per un totale di poco più di 6 milioni di rapporti) e coinvolgono quasi 5,2 milioni di lavoratori.


Per far fronte a questi fenomeni le principali forze politiche di opposizione rappresentate in Parlamento hanno avanzato diverse proposte di legge per l’istituzione di un salario minimo legale fissato entro una soglia compresa tra 9 e 10 euro per ora di lavoro. Si tratterebbe di una misura non solo auspicabile ma di notevole impatto per un gran numero di lavoratori poveri. Infatti, sempre secondo quanto presentato nel corso dell’audizione al Parlamento del luglio dello scorso anno:

  • l’innalzamento della retribuzione oraria minima a 9 euro comporterebbe un incremento della retribuzione annuale per 3,6 milioni rapporti lavorativi con un incremento medio annuale pari a circa 804 euro per singolo rapporto;
  • l’innalzamento della retribuzione oraria minima a 10 euro comporterebbe un incremento della retribuzione annuale sono poco più di 6 milioni di rapporti lavorativi con un incremento medio annuale pari a circa 1.069 euro.




Dignità e sicurezza. Per un lavoro che non sia sacrificio umano

di Daniela Bauduin(5)*


Il disegno costituzionale del lavoro, tracciato dai Costituenti, prevede un lavoro dignitoso, ossia sicuro, sano, retribuito adeguatamente, strumento di liberazione dal bisogno materiale e di inclusione nella piena cittadinanza. Ciò è affermato con chiarezza dalla Costituzione italiana che pone il lavoro a fondamento della Repubblica (art. 1) e pertanto sollecita la rimozione degli ostacoli economico-sociali che impediscono ai cittadini la piena partecipazione alla vita della polis (art. 3). La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 34), nel titolo dedicato alla solidarietà, riconosce il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale in casi quali la malattia e gli infortuni sul lavoro. Analogamente fa in tema di sicurezza la nostra Carta fondamentale che riconosce la libertà di iniziativa economica privata, ma prevede al contempo che essa non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (artt. 38 e 41 Cost.)(6).

Un assetto, quello sopra citato, in cui è difficile credere quando ci troviamo di fronte a situazioni disumane di lavoro, vere e proprie forme di schiavitù che riducono l’essere umano a proprietà altrui, oppure quando siamo posti dinnanzi al dramma di restare senza lavoro: in entrambi i casi è inflitta una ferita alla dignità.

Il lavoro negato crea un senso di esclusione dal mondo, di alienazione, come è stato ben descritto da Vitaliano Trevisan nelle pagine del romanzo autobiografico Works(7), che descrive il clima emotivo in cui si trovò a vivere in mancanza di lavoro, condizione considerata dai più come qualcosa di intollerabile, di spaventoso, una vera maledizione.

Il lavoro deve essere degno, ossia regolare, sicuro, incentrato sulla persona: i gravi infortuni sul lavoro, le morti nei cantieri, sono sovente la conseguenza diretta del modo in cui le persone sono costrette a lavorare senza l’uso delle misure di sicurezza, sospese nel vuoto oppure costrette a sollevare pesi insostenibili.

Sul piano normativo, il Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali prevede l’obbligo di assicurazione per tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, oppure un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni(8). L’obbligo assicurativo riguarda anche le malattie professionali indicate nella tabella allegata al TU citato, le quali siano contratte nell’esercizio e a causa delle lavorazioni specificate nella tabella stessa ed in quanto tali lavorazioni rientrino tra quelle previste nel TU(9). A seguito dell’intervento della Corte costituzionale(10), l’assicurazione è obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro.

L’INAIL mette a disposizione dei cittadini il proprio patrimonio informativo attraverso dati pubblici, in formato aperto e senza limitazione per l’utilizzo, collocati nella sezione “Open data” del sito dell’Istituto, dove si ritrovano informazioni analitiche sulle denunce di infortunio e di malattia professionale.

Di seguito, i dati aggiornati al mese di ottobre 2024(11):

  • «Le denunce di infortunio presentate all’Inail nei primi 10 mesi del 2024 sono state 491.439, in aumento dello 0,4% rispetto alle 489.526 dello stesso periodo del 2023, del 9,7% rispetto a gennaio-ottobre 2021 e del 16,6% rispetto a gennaio-ottobre 2020, e in diminuzione del 17,5% sul 2022 e dell’8,0% sul 2019, anno che precede la crisi pandemica (…)Tra i settori con più infortuni avvenuti in occasione di lavoro si evidenziano per gli incrementi le Costruzioni (31.341 casi, +3,2% sul 2022), il Trasporto e magazzinaggio (28.918 casi, +2,3%), il Commercio (27.417, +3,4%) e il Noleggio e servizi di supporto alle imprese (18.198, +5,3%), e per i decrementi il comparto manifatturiero (59.678, -4,8%) e la Sanità e assistenza sociale (30.444, -9,9%).
  • L’analisi territoriale evidenzia un aumento delle denunce nelle Isole (+2,1%), seguite da Centro (+0,7%), Nord-Ovest (+0,5%) e Nord-Est (+0,2%), e un calo al Sud (-0,7%). Tra le regioni con i maggiori incrementi percentuali si segnalano le province autonome di Trento (+15,5%) e Bolzano (+3,5%), l’Umbria (+3,5%), la Sicilia (+2,4%) e la Calabria (+1,9%), mentre per i decrementi la Basilicata (-6,3%), l’Abruzzo (-4,0%), le Marche (-1,6%) e l’Emilia-Romagna (-1,5%).
  • Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate nei primi 10 mesi del 2024 sono state 890, 22 in più rispetto alle 868 registrate nel pari periodo del 2023, 19 in meno rispetto al 2022, 127 in meno sul 2021, 146 in meno sul 2020 e sei in meno sul 2019. (…) Dall’analisi territoriale emergono incrementi nel Nord-Ovest (da 228 a 242 denunce), al Centro (da 156 a 173) e nelle Isole (da 75 a 96), e cali nel Nord-Est (da 196 a 189) e al Sud (da 213 a 190). Tra le regioni con i maggiori aumenti si segnalano il Lazio (+17), la Lombardia (+16), la Sicilia (+14), la Toscana (+10) e la Sardegna (+7), mentre per i cali più evidenti il Veneto (-17), la Campania e l’Abruzzo (-12 ciascuna), il Piemonte (-9) e le Marche (-6)
  • Le denunce di malattia professionale protocollate dall’Inail nei primi 10 mesi del 2024 sono state 73.922, 13.460 in più rispetto allo stesso periodo del 2023 (+22,3%). L’aumento è del 47,8% rispetto al 2022, del 62,8% sul 2021, del 101,9% sul 2020 e del 44,8% sul 2019.. (…) L’aumento interessa le Isole (+30,28%), il Sud (+30,25%), il Centro (+20,5%), il Nord-Ovest (+16,6%) e il Nord-Est (+14,0%).
  • In ottica di genere si rilevano 10.228 denunce di malattia professionale in più per i lavoratori, da 44.470 a 54.698 (+23,0%), e 3.232 in più per le lavoratrici, da 15.992 a 19.224 (+20,2%). L’aumento ha interessato sia le denunce dei lavoratori italiani, passate da 55.520 a 67.606 (+21,8%), sia quelle dei comunitari, da 1.526 a 1.964 (+28,7%), e degli extracomunitari, da 3.416 a 4.352 (+27,4%).
  • Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, quelle del sistema nervoso e dell’orecchio continuano a rappresentare, anche nei primi 10 mesi del 2024, le prime tre tipologie di malattie professionali denunciate, seguite dai tumori e dalle patologie del sistema respiratorio».


Al fine di evitare che le morti sul lavoro si trasformino in meri dati statistici, il giornale La Repubblica dedica uno spazio fisso a tali tragedie, in cui racconta la vita di ciascuna vittima: la storia di Gaspare, morto nel porto di Napoli, schiacciato durante le operazioni di sistemazione dei camion sul traghetto; quella di Chokri, operaio edile morto a Genova, precipitato dal tetto di una palazzina in ristrutturazione.

Nell’ambito delle disposizioni introdotte nella XIX Legislatura con decretazione d’urgenza per attuare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), il Governo ha adottato alcune misure normative in materia di prevenzione e contrasto del lavoro irregolare(12).

  • è riconosciuto al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nel subappalto “un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto” ed è previsto che il committente sia obbligato in solido sul piano retributivo e contributivo anche nei casi di illiceità della somministrazione di prestatori di lavoro, dell’appalto e del distacco (art. 29, comma 2);
  • vengono aumentate le sanzioni per le violazioni previste nel caso di lavoro nero e irregolare (art. 29, comma 3) ed è reintrodotto il reato di somministrazione illecita di manodopera (art. 29, comma 4);
  • è previsto che nel caso di accertamenti ispettivi in materia di lavoro e di legislazione sociale, ivi compresa la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, da cui non emergano violazioni o irregolarità, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro rilasci un attestato e iscriva il datore di lavoro, previo assenso, in un apposito elenco informatico consultabile pubblicamente, denominato “Lista di conformità INL”. I datori di lavoro cui è stato rilasciato l’attestato non sono sottoposti, per un periodo di dodici mesi dalla data di iscrizione nella Lista citata, ad ulteriori verifiche da parte dell’INL, fatte salve quelle in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, le eventuali richieste di intervento, nonché le attività di indagine disposte dalla Procura della Repubblica. Nel caso fossero accertate violazioni o irregolarità, l’Ispettorato provvede alla cancellazione del datore di lavoro dalla Lista di conformità INL (art. 29, comma 7-8-9);
  • al fine di rafforzare l’attività di vigilanza in materia di lavoro, legislazione sociale, nonché di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, è previsto il potenziamento del personale ispettivo preposto ai controlli sul territorio (art. 31).


Da sempre l’arte è capace di trasmettere ciò che tante parole non riescono a esprimere efficacemente, così accade nel libro Per mille camicette al giorno(13), in cui una vecchia camicetta racconta la storia del terribile incendio della Triangle Shirtwaist Factory, avvenuto il 25 marzo 1911 a New York, ove persero la vita centoventinove operaie, di cui trentotto erano emigranti italiane.

In questo albo illustrato, le autrici criticano l’impiego dell’espressione «morti bianche» per definire gli infortuni mortali sul lavoro, in quanto tali eventi non hanno nulla di candido, si tratta spesso di morti annunciate dall’incuria e quindi evitabili. Della stessa opinione è chi scrive, come espresso in un recente saggio di cui è coautrice, al quale si rinvia nella conclusione di queste riflessioni: «Per consuetudine gli infortuni fatali vengono definiti, con una certa retorica, “morti bianche”, veicolando implicitamente il messaggio che la morte di lavoro sia meno negativa, grave, socialmente pericolosa, siccome il colore bianco comunemente ha un connotato positivo, che secondo una certa morale cromatica è in grado di veicolare purezza e incorruttibilità. Invece, non c’è nulla di morale o incorruttibile nel perdere la vita sul lavoro. Al contrario, si tratta di vite innocenti perdute, per questo, a parere delle autrici, l’espressione più appropriata all’uso in questo contesto è di “sacrifici umani”».(14)



Una panoramica degli ultimi dieci anni

di Lorenzo Fanoli


I dieci anni che sono trascorsi dalla pubblicazione del nostro primo Rapporto sullo Stato dei Diritti in Italia sono stati caratterizzati da una dinamica generalizzata di incremento dei fenomeni di marginalizzazione testimoniata soprattutto dai numeri relativi alla diffusione della povertà e delle disparità di reddito.

In questi anni si sono succedute misure basate su due fondamentali approcci contrastanti orientati:

  • da un lato ad adottare strumenti e dispositivi, sia di carattere universalistico e tendenti a garantire supporti economici di carattere generale e di integrazione al reddito per le persone in condizioni deprivazione e povertà, sia più direttamente connesse alla disciplina dei contratti di lavoro volti a limitare la diffusione di condizioni di lavoro intermittenti e temporanee per privilegiare quelle di rapporti di lavoro stabili e di lunga durata;
  • dall’altro, invece, più orientate a introdurre misure di maggiore flessibilità nell’accesso al mercato del lavoro attraverso incentivi alle imprese e una minore possibilità di ricorso al contenzioso per i casi di licenziamenti e a limitare l’erogazione di sostegni economici, di carattere universalistico, nei confronti di persone “occupabili”, sostituendole con programmi di formazione e un supporto più diretto all’inserimento nel mercato del lavoro.


Purtroppo l’insieme di queste iniziative e l’alternarsi periodicamente di soluzioni di diversa natura confliggenti tra loro non sembra aver modificato sostanzialmente e positivamente lo scenario al quale ci trovavamo di fronte dieci anni fa. In particolare e nonostante l’incremento del numero di occupati nel nostro paese, la percentuale di persone in condizioni di povertà assoluta è passata dal 6,9% del 2014 al 9,7 % del 2023. A tale fenomeno si associa una significativa diffusione di lavoro povero e il nostro paese risulta al secondo posto tra i 27 Paesi dell’Unione Europea per incidenza di tale condizione. Bisogna qui considerare che, secondo recenti stime prodotte dall’Istat, sono oltre 5 milioni le persone che percepiscono un compenso orario inferiore a 10 euro. Permangono, inoltre, forti disparità generazionali e di genere nell’accesso al mercato del lavoro e nella distribuzione delle retribuzioni, cui consegue una forte diffusione di condizioni di precarietà e povertà lavorativa tra i giovani e le donne. Infine, ma non per ordine di importanza, va sottolineato che in un contesto in cui un numero variabile tra 5 e 7 milioni di persone si trova in condizioni di scarsa tutela contrattuale, risulta particolarmente drammatica la diffusione di infortuni e, soprattutto, di morti sul lavoro, che sono costantemente più di 1.000 ogni anno e che nel 2024 risultano in aumento rispetto al 2023.


QUANDO IL LAVORO NON BASTA PER GUADAGNARSI DA VIVERE


(…) riandando a un’altra lezione di inglese Mr. Chess (…) quando nel corso della consueta mezz’ora finale di conversazione di libera ci aveva chiesto “perché lavoriamo?” (…) non ero forse stato l’unico a rispondere: Because I need money to live? (…) Né posso dire che si trattasse di persone che non avessero bisogno di lavorare (….); eppure anche se avevano bisogno di lavorare per guadagnarsi da vivere nessuno di loro aveva detto semplicemente “lavoro per guadagnarmi da vivere”; poi, per carità, magari, se è possibile, quando è possibile, anche per altro; ma il primo motivo dovrebbe esser quello; e se proprio uno non lo mette per primo, non dovrebbe almeno essere compreso nella lista? Invece no, niente, nemmeno un cenno. La propaganda fa miracoli anche senza un apposito ministero(1).

Vitaliano Trevisan


Art. 4

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. 

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. 

Art. 36

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.

Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.




Raccomandazioni


  • Intervenire con misure legislative dirette per contrastare il fenomeno dei working poor anche attraverso l'istituzione di una misura di salario minimo


  • Potenziare il sistema di welfare per la conciliazione dei tempi di vita e tempi di lavoro per favorire l'accesso al lavoro stabile e garantito dei giovani e delle donne che sono le categorie in cui è piu' diffuso il part-time involontario


  • Rendere più accessibili e diffuse le misure universalistiche di sostegno al reddito in maniera particolare per disoccupati di lunga durata e fasce deboli della popolazione


  • Intervenire anche eventualmente con misure legislative ad hoc per contrastare le disparità retributive che colpiscono giovani e donne


  • Favorire l'accesso dei giovani alle posizioni lavorative nelle pubbliche amministrazioni lasciate vacanti dalle numerose uscite che si sono verificate in questi ultimi anni in funzione da parte dei funzionari e impiegati reclutati tra gli anni '80 e 90 del secolo scorso


  • Incrementare i controlli, rafforzare le normative sugli appalti non solo abolendo il massimo ribasso ma rafforzando i controlli sui fenomeni di subappalto e le verifiche sulle retribuzioni effettive dei lavoratori nell'ambito delle commesse affidate


  • Rafforzare potenziare la rete dei funzionari Inail proposti ai controlli e alle verifiche dell sicurezza sul lavoro e il rispetto delle norme contrattuali.




Note


(1) - Vitaliano Trevisan, Works, Einaudi, Torino 2016-2022

(2) - Per quanto riguarda i dati sugli andamenti dell’occupazione e delle sue caratteristiche si veda https://esploradati.istat.it/databrowser/#/it/dw/categories/IT1,Z0500LAB,1.0/LAB_OFFER/LAB_OFF_EMPLOY

(3) - Giovani tra i 25 e 34 non occupati né inseriti in percorsi di istruzione e formazione

(4) - Si veda in particolare Francesca Coin, Le grandi dimissioni, Einaudi, Torino 2023.

(5) - * Funzionario pubblico, ha esercitato la professione forense, è autrice di saggi in materia giuridica.

(6) - Art. 41 Cost., come modificato dall’art. 2, Legge cost. 11 febbraio 2022, n. 1.

(7) - V. Trevisan, Works, edizione ampliata, Giulio Einaudi editore, Torino, 2022, pp. 339 e seguenti.

(8) - Art. 2, D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124.

(9) - Art. 3, D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124.

(10) - Corte cost. 10-18 febbraio 1988 n. 179, sent. (in G.U. 1 a s.s. 24 febbraio 1988, n. 8).

(11) - INAIL, Comunicato stampa, Denunce di infortuni e malattie professionali, online gli open data Inail di ottobre, consultabile su: https://www.inail.it/portale/it/inail-comunica/comunicati-stampa/comunicato-stampa.2024.12.comunicato-stampa-open-data-inail-ottobre-2024.html

(12) - Decreto-Legge 2 marzo 2024, n. 19, Ulteriori disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), convertito con modificazioni dalla Legge 29 aprile 2024, n. 56.

(13) - S. Ballista (testo), S.M.L. Possentini (illustrazioni), Per mille camicette al giorno, Orecchio Acerbo, Roma, 2024.

(14) - D. Bauduin, E. Falletti, Sicurezza, automazione, dignità del lavoro, Futura editrice, Roma, 2023, p. 28.

Abd Elsalam Ahmed Eldanf

Abd Elsalam Ahmed Eldanf

(1963?-2016)
ABD ELSALAM AHMED ELDANF AVEVA 53 ANNI, UN LAVORO E UN’IDEA FERMA NELLA MENTE: NIENTE PRECARIATO PER NESSUNO DEI SUOI COMPAGNI LAVORATORI. PER QUESTO FU UCCISO DURANTE UN PICCHETTO DI PROTESTA A PIACENZA

“Abd Elsalam Ahmed Eldanf il posto fisso e sicuro lo aveva, ha fatto una scelta di classe e di fratellanza: ha deciso di battersi per i suoi compagni ed è stato assassinato”. Parole pesanti hanno fatto da eco alla morte di Abd Elsalam, sin dai giorni successivi a quello che da un lato è stato prontamente definito “tragico incidente”, e dall’altro “omicidio padronale”. E lo stesso Abd Elsalam, con il suo attivismo, faceva a sua volta da eco ad altre parole ed altre lotte; viene in mente, a leggerne la vicenda, quel “nessuno è libero se tutti non sono liberi”.

Non era un precario, Abd Elsalam, ma molti dei suoi compagni lo erano. E quando l’azienda per la quale erano impiegati nel settore della logistica venne meno agli accordi sul posto fisso e su quel precariato, lui insieme a tanti altri non esitarono a protestare e scioperare. “Parti! Vai!”, anche poche parole possono avere effetti devastanti; quelle furono le parole sentite dai compagni di Abd Elsalam, rivolte a uno dei trasportatori dell’azienda, quella brutta notte del 14 settembre 2016.

Quel presidio c’era chi voleva forzarlo e disperderlo, quello stesso presidio la cui presenza fu addirittura negata dagli inquirenti, forse per far venir meno l’intera tesi dell’incitamento a partire nei confronti del tir. La verità, l’unica verità che fu subito irrimediabilmente evidente a tutti, è la morte di Abd Elsalam, investito da quel tir.  

Da lavoratore migrante si era impiegato nel campo della logistica, uno dei più problematici dal punto di vista della tutela dei diritti e delle condizioni di lavoro, ma (e forse anche perché) tra i comparti cruciali per l’economia del mercato. E lui, col suo posto fisso già assicurato, non sopportava di vedere i suoi compagni ancora precari e ai limiti dello sfruttamento. Azioni importanti, sulle barricate dei diritti, megafono in mano, rabbia e speranza nel cuore, resistono anche davanti alla morte, e trovano eco nelle parole, come quelle di questa canzone:


“Va bene anche allearsi con la morte

se serve a garantirsi il frigo pieno.

Va bene fare scorte, calpestare un po’ più forte,

far passar sopra il corpo un autotreno.

Se c’è chi vuol spezzare la catena,

conflitto tra lavoro e capitale,

fra un Tir lanciato ed una pancia piena

finirà di certo molto molto molto molto male.

Così che nella notte di Piacenza

un egiziano è stato calpestato

per lui non c’è più ombra di clemenza,

quel picchetto era una sfida al nostro vivere beato.

Beata la coscienza della notte,

beato il nostro vivere civile,

beato il nostro frigo che s’inghiotte

questo residuale senso dell’umanità servile.

Abd el-Salam perdona noi

per tutte le magnifiche buone intenzioni

di cui è asfaltata questa via,

per quest’inferno di crumiri ed esclusioni

Abd Elsalam perdona noi,

qui da Piacenza che si muovono le merci,

di cui si asfalta pure te

che ti sei osato di frapporre fra i commerci”

 

La canzone è “Abd El Salam” di Alessio Lega

https://www.youtube.com/watch?v=q1zuS6xcQ2s