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Diritto all'abitare

Il 2023 e il 2024


Salva Milano, Salva Casa e Piano Casa


Il Piano Casa sarà pronto a giugno del 2025, tuttavia si possono dare già alcune anticipazioni. La filosofia di fondo è quella di incrementare la dotazione di alloggi a canoni accessibili. Per fare questo si stanno mettendo a punto una serie di azioni che prevedono il coinvolgimento del pubblico e del privato. In merito al pubblico, si registra la volontà di attribuire alle Aziende Casa – le ex ICAP ora Ater, Aler ecc., ossia agli enti gestori dell’edilizia pubblica residenziale - il ruolo di soggetto attuatore di piani di recupero e di trasformazione di edifici pubblici in case e studentati. Queste aziende da tempo strette dai vincoli di pareggio bilancio, potrebbero così ampliare il loro campo d’azione. Altro punto senz’altro positivo è il prevedere uno stanziamento nazionale per le manutenzioni delle case popolari come già fatto con la legge Lupi – 80/2014 – rendendolo però strutturale. Anche qui la necessità di ottenere il pareggio di bilancio ha nel tempo comportato tagli alle manutenzioni che hanno inficiato l’uso del patrimonio pubblico. Le oltre 10mila case popolari chiuse a Milano ne sono la testimonianza. Entrambe queste misure perciò affrontano da angolazioni diverse il tema della gestione delle Aziende di edilizia pubblica il cui funzionamento andrebbe rivisto in un nuovo quadro strutturale che ne affronti finalmente tutti i nodi critici derivati dal pareggio di bilancio imposto nei primi anni duemila.

Oltre a questa linea d’azione il Piano casa prevede partnership pubblico-privato in forme nuove, esenzioni fiscali e l’acquisto di alloggi invenduti, il tutto finalizzato al Mix Sociale. Al di là di come verranno articolate tutte queste misure, rimangono due punti critici. Il primo di carattere pragmatico: ossia come e quanto verranno finanziate tutte queste misure. Il secondo di carattere teorico: qualcuno ha mai calcolato come questo mix sociale deve essere composto?

Il dato non è così secondario, perché altrimenti il tema del mix sociale rischia di essere un passepartout per legittimare operazioni mirate a una migliore redditività a scapito paradossalmente proprio delle operazioni sociali.

Il tema della mixité, che ricordiamo è l’obiettivo del Piano, rischia di essere scivoloso innanzitutto perché non esistono studi, e qualora esistano pongono non pochi problemi di attuabilità. Ad esempio, in una ricerca condotta su 45 quartieri di edilizia residenziale romana, si è visto che l’Indice di disagio sociale sale esponenzialmente quando la quota di case popolari supera il 30% dell’intero quartiere(10). Ora, considerando che la maggior parte dei quartieri di edilizia residenziale pubblica hanno una concertazione maggiore rispetto a questa quota, ciò dovrebbe comportare o la vendita o la cessione ad altra tipologia di affittuari di una parte di queste residenze. Ma considerando la pressante emergenza abitativa questa quota di alloggi andrebbe reintegrata altrove, e a rigor di logica proprio nei quartieri dove l’edilizia residenziale è meno presente. Il che comporterebbe di fatto cedere gli alloggi nelle periferie e acquisirne in centro fino al raggiungimento della quota ottimale, operazione non proprio facilissima.

Il mix sociale rischia così di esser ridotto ad un “quanto basta” da ricetta culinaria, mentre potrebbe veramente essere uno strumento per leggere e pianificare le nostre città. Se tutto questo implicherebbe una maggiore attenzione del Pubblico su ciò che avviene in città, i segnali che giungono dal Governo vanno in tutt’altra direzione. Infatti, in attesa del Piano casa è stato pubblicato il Salva Casa(11), un insieme di misure che oltre a facilitare la regolarizzazione di piccoli abusi introduce nuovi standard per l’abitabilità e stabilisce che gli alloggi minimi possano passare da 28 a 20mq, per una persona, e da 38 a 28 mq per due. Una norma che di fatto favorisce una logica speculativa riducendo lo spazio vivibile per persona e che se vista in prospettiva e collegata alle varie norme regionali derivate dal Piano Casa Berlusconi – che riguardano la demolizione e ricostruzione con premi di cubatura – rischia di giocare un ruolo nella trasformazione di quote parte di città in micro-condomini.

Se questo potrebbe essere un pericolo nel Salva Milano(12), approvato alla Camera e in discussione al Senato, vi è di sicuro una certezza: quella dell’annichilimento della anche più elementare norma urbanistica. Il tutto nasce dall’inchiesta della Magistratura che ha messo a nudo un sistema che ha consentito con semplici autorizzazioni da parte del Comune di edificare cubature ingenti(13), senza limiti in altezza e considerazioni di impatto urbanistico. Il testo in discussione, ampliando le maglie degli interventi ammissibili per appunto “salvare Milano”, rischia tuttavia di divenire norma nazionale aprendo a una completa deregolamentazione dei processi urbanistici.

Giancarlo Storto, ex Direttore del C.E.R., il Comitato per l’edilizia residenziale, audito in Commissione Ambiente alla Camera il 12 settembre 2024, così si esprimeva: “L’urbanistica contrattata divenuta modalità ordinaria, la legislazione che introduce deroghe su deroghe, le giunte comunali che reclamizzano il proprio territorio per sollecitare investimenti, lo smantellamento del sistema dei controlli ricondotti a pastoie burocratiche che rallentano lo sviluppo, hanno fatto ritenere ammissibile ciò che ammissibile non èSe nei presupposti della pianificazione urbanistica viene a mancare il perseguimento dell’interesse pubblico e la visione di un assetto urbanistico ordinato e rispondente ad un disegno complessivo allora tutto è possibile. Le nuove norme renderanno dunque possibile aumentare il numero dei piani senza tener conto delle altezze degli edifici adiacenti. Codificare che per le nuove costruzioni nei lotti interclusi in zone urbanizzate e per ogni forma di interventi di ristrutturazione si possa procedere sempre e comunque, senza che l’amministrazione comunale possa subordinare la richiesta del titolo abilitativo a strumenti di dettaglio, significa impoverire i contenuti dei piani”.

Il prossimo anno - con varo del Piano Casa e del Salva Milano - sarà decisivo per capire quale assetto prenderà la materia, se prevarranno logiche liberiste oppure quelle mirate a un nuovo protagonismo dello Stato. Certo è non si possono perseguire entrambe questa strade contemporaneamente.



Una panoramica degli ultimi anni


Tracciare l’evoluzione delle politiche abitative degli ultimi dieci anni potrebbe sembrare un’operazione complessa se non fosse che una certa inerzia legislativa, che ha dominato il settore, agevola il compito.

Di fatto, come vedremo, la legislazione intercorsa in questo ultimo decennio non ha inciso nel settore con riforme strutturali ma solamente con dei piccoli assestamenti.

Ciò che è profondamente mutato in quest’ultimo decennio è la percezione e la consapevolezza che il settore abitativo sia in crisi e che questa crisi abbia ripercussioni in diversi ambiti – abitativo, sociale, economico – fino a riflettersi sulla stessa qualità di vita nelle nostre città. A trainare il dibattito è stato il tema delle locazioni turistiche in relazione con il cosiddetto overtourism, il troppo turismo, un fenomeno che è riesploso dopo gli anni di stop della pandemia. Mentre la città di Roma si preparava all’ondata eccezionale di 35milioni di visitatori per il Giubileo del 2025, per il 2024 si sono già registrate 40milioni di presenze turistiche superando tutte le previsioni; alcune città come Venezia si sono già attrezzate contingentando gli ingressi.

Ad accendere il faro sulle politiche abitative sono state anche le manifestazioni degli studenti fuorisede contro il caro affitti e le crescenti difficoltà a trovare un alloggio. La protesta, nata a maggio 2023 con l’iniziativa di una studentessa – Ilaria Lamera – che si è accampata con una tenda di fronte al Politecnico di Milano, si è rapidamente estesa in tutta Italia ed è proseguita per tutto il 2023. Le tende piantate nei principali atenei italiani sono così diventate l’emblema della precarietà abitativa. Anche in questo caso, da più parti è stato evidenziato come il mercato turistico sia entrato in competizione con quello delle locazioni per studenti. Il paradosso è che nel decennio precedente le associazioni sindacali avevano evidenziato come proprio le locazioni per studenti avessero avuto un ruolo nell’espulsione dei residenti, pertanto sembra di essere di fronte a un’ulteriore evoluzione del fenomeno espulsivo.

Anche il tema delle periferie – che di fatto in Italia corrispondono ai grandi complessi di edilizia residenziale pubblica come Scampia, Caivano, Tor Bella Monaca, lo Zen – si è riacceso più volte durante il decennio: una prima volta nel 2015 con l’istituzione della Commissione sulla sicurezza nelle Periferie, XVII Legislatura, e con il relativo Piano di rigenerazione, per affrontare le difficili condizioni di vita nelle periferie, e poi nel 2023 con il tragico episodio di Caivano e il Decreto-Legge n.123, detto appunto Decreto Caivano. Queste vicende potrebbero sembrare scollegate ma possono essere lette attraverso il minimo denominatore comune delle politiche abitative: ci parlano infatti del mancato controllo delle locazioni brevi e della carenza di politiche a favore della residenzialità, della scarsità dell’offerta pubblica e privata economicamente accessibile agli studenti, della difficile condizione di vita nei complessi di edilizia residenziale pubblica, della costante crescita dell’emergenza abitativa. Non sono forse tutti aspetti che riguardano l’abitare?

Di sicuro gli eventi menzionati sono sintomi che evidenziano il generale disimpegno della politica nel settore della casa a qualsiasi livello, un disimpegno strutturale che dura dagli anni Novanta e che ha coinciso con l’abrogazione della tassa di scopo sulla casa – la Gescal, nel 1998 – la dismissione del patrimonio pubblico – avviata con la legge 560 del 1993 e purtroppo ancora in corso – e con il trasferimento agli enti locali di competenze in assenza di finanziamenti stabili. La legislazione intercorsa in questo decennio non ha modificato questo stato di cose: ancora oggi l’impianto legislativo che regola il settore della casa è quello degli anni Novanta – come la legge che regola le locazioni, la 431 del 1998 – appartenente dunque a un’altra fase storica.

Oggi il dibattito intorno alle politiche abitative sembra aver compiuto un salto di scala: mentre nel 2013 era schiacciato sull’emergenza abitativa, in questo decennio la questione abitativa ha investito una platea sempre più ampia, e sono sempre di più i soggetti che se ne occupano: non solo tecnici del settore ma anche ricercatori, attivisti, giornalisti. In quasi ogni grande città, inoltre, sono nati gruppi di pressione magari mossi da diverse finalità ma dalla medesima consapevolezza dell’importanza di affrontare la questione della casa. Tutti questi fattori hanno contribuito a far uscire il dibattito sulla casa dall’isolazionismo in cui era stato relegato.

Il decennio si è aperto con una serie di riforme - come l’introduzione del fondo per Morosità incolpevole nel 2013 e il Piano Casa nel 2014 - spinte dalla consapevolezza che il problema abitativo stava tornando a riacutizzarsi. Gli anni precedenti, a partire dalla crisi dei mutui subprime del 2008, avevano visto crescere in modo esponenziale da un lato gli sfratti per morosità incolpevole e dall’altro le liste di attesa per un alloggio pubblico, chiari sintomi di un disagio abitativo in aumento. La crisi del debito sovrano nel 2011 ha ulteriormente esacerbato la situazione di crisi economica andando a incidere prevalentemente sulle fasce sociali più deboli, quelle maggiormente esposte al disagio abitativo. La crisi congiunturale determinata dalla sovrapposizione di questi effetti ha di fatto riaperto la questione della casa, intesa come emergenza abitativa, ma in forma diversa rispetto al passato: se la grande crisi abitativa del secolo scorso era determinata soprattutto dalla scarsità dell’offerta di case, in questa nuova crisi è l’accessibilità economica della casa a essere decisiva. Il dibattito sulla necessità di nuovi strumenti per le politiche è oggi alimentato da associazioni, sindacati e soprattutto dai Comuni che si trovano ad affrontare questa nuova crisi abitativa con pochi strumenti, un problema solo parzialmente recepito dal Governo.


C17. Grafico 1 • Richieste di esecuzioni, provvedimenti emessi e sfratti eseguiti negli anni 2005-2020 



C17. Grafico 2 • Sfratti per causa: necessità del locatore, finita locazione, morosità



La prima riforma del decennio passato riguarda, come accennato, l’istituzione di un fondo per la morosità incolpevole; la seconda e più importante riforma è il cosiddetto Piano casa Renzi-Lupi.

L’introduzione di un provvedimento sulla morosità incolpevole si era reso necessario perché il contributo all’affitto esistente, quello previsto dalla 431/98, è pensato per incidere sull’abbattimento del canone di locazione attraverso contributi mensili modesti, inefficaci in situazioni di debito pregresso di migliaia di euro. Dunque il fondo per la morosità è stato introdotto per consentire il saldo del debito pregresso con un contributo fino a 12mila euro per nucleo.

Per quanto riguarda la seconda misura, sebbene il Piano casa Renzi-Lupi sia noto prevalentemente per il contestato e contestabile articolo 5 che impedisce la registrazione della residenza agli occupanti, la misura è in realtà un complesso di norme che investe diversi ambiti con uno stanziamento complessivo di 1,7 miliardi di euro. Il Piano ha riformato l’uso dei contributi per l’affitto, integrando e finanziando la morosità incolpevole con 226 milioni di euro dal 2014 al 2020 e ampliando le capacità d’azione del contributo per l’affitto della 431/98 (reso utilizzabile anche, per esempio, per l’istituzione di Agenzie pubbliche per l’affitto in grado di reperire alloggi sul mercato anche in accordo con gruppi imprenditoriali o cooperativi), e fissando la cedolare secca al 10% per i canoni a locazione concordata. Il Piano ha riformato la normativa sulla vendita degli alloggi di edilizia residenziale pubblica per favorire l'accesso alla proprietà dell’abitazione con particolare attenzione alla vendita degli alloggi in condomini misti, ossia dove il pubblico detiene quote inferiori al 50%. Per questa finalità il Piano ha istituito anche un fondo con una dotazione di 18,9 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2020, destinato alla concessione di contributi in conto interessi su finanziamenti per l’acquisto da parte dei conduttori degli alloggi di proprietà degli Istituti autonomi per le case popolari. In merito all’edilizia residenziale pubblica, il Piano ha stanziato 500 milioni di euro per il recupero e la ristrutturazione di alloggi popolari che non possono essere assegnati a causa delle pessime condizioni manutentive. Inoltre, il Piano ha riformulato la definizione di alloggio sociale – “si considera alloggio sociale l'unità immobiliare adibita ad uso residenziale, realizzata o recuperata da soggetti pubblici e privati, nonché dall’ente gestore comunque denominato, da concedere in locazione, per ridurre il disagio abitativo di individui e nuclei familiari svantaggiati che non sono in grado di accedere alla locazione di alloggi alle condizioni di mercato” – e ha fissato a sette anni il limite oltre il quale è possibile l’alienazione attraverso patti di futura vendita. In ultimo, ha previsto il divieto di residenza in immobili occupati con il famigerato articolo 5 – “Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l'allacciamento a pubblici servizi” – che ha suscitato e suscita molte controversie, e che pone diversi problemi costituzionali perché alla residenza sono collegati diversi diritti di base, come l’iscrizione al medico di base e il diritto alla salute, l’iscrizione ai plessi scolastici e quindi il diritto allo studio, per cui negare la residenza equivale di fatto a negare l’accesso a questi diritti e a servizi di base. Sono quattro gli articoli della Costituzione in contrasto con l’articolo 5 del Piano Casa: il diritto alla salute (art. 32), il diritto allo studio (art. 34), il diritto alla distribuzione delle risorse e alla fruizione dei servizi di welfare (art. 3), il diritto a una vita libera e dignitosa (art. 36)(1). Nonostante questo, a oggi l’articolo 5 è ancora in vigore e bisognerà attendere l’esito di diversi ricorsi per capire come evolverà la situazione.

Sempre in merito alla godibilità dei diritti, un altro fronte ancora aperto è quello che riguarda l’innalzamento degli anni di permanenza sul suolo comunale o regionale per l’ottenimento del diritto all’alloggio pubblico. La norma che limita questo diritto in base al tempo pregresso di residenza, adottata da alcune regioni attraverso i regolamenti di settore che sono di competenza regionale, è di fatto mirata a limitare l’accesso agli alloggi pubblici agli stranieri(2). Tuttavia questi regolamenti contrastano sia con l’articolo 3 della Costituzione Italiana – “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge…” – che con la normativa europea sull’immigrazione, adottata dall’Italia nel 2007, che stabilisce che lo status di “soggiornante di lungo periodo” coincide con i cinque anni e otto giorni dall’ingresso regolare nello Stato: da tale status consegue l’equiparazione ai cittadini italiani ai fini dell’assegnazione degli alloggi di edilizia popolare. Pertanto la maggior parte delle norme che discriminano l’accesso all’alloggio pubblico in base al tempo di residenza sono state abrogate da sentenze della Corte Costituzionale.

Nel 2014 è stato approvato anche il Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate (legge 23 dicembre, n. 190)Il Piano prevede che siano i Comuni a presentare al Ministero progetti per aree degradate individuate attraverso un criterio statistico determinato da due indicatori: il disagio sociale e il disagio abitativo. La dotazione del Fondo per l’attuazione del Piano nazionale è stata fissata in 44 milioni di euro per il 2015 e 75milioni di euro per ciascuno degli anni 2016 e 2017, per complessivi 194milioni(3).

Attraverso una pianificazione pluriennale, il Piano Casa e il Piano per le aree urbane degradate completavano il quadro di interventi in grado di dare continuità e stabilità al settore. Tuttavia nel 2015, con il tragico attentato al Bataclan a Parigi, si è riaperta la questione delle periferie e il Governo ha deciso di varare un investimento straordinario per la sicurezza, con dotazione di un miliardo di euro, a cui affiancare un investimento di pari importo per la cultura. Le periferie – luogo simbolico da cui provenivano gli attentatori – avrebbero dovuto essere oggetto di particolari cure. Nacque così il Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provinciaIl fondo per l’attuazione del Programma straordinario è stato di 500 milioni di euro solo per il 2016; con i finanziamenti per gli anni successivi si arrivava a un totale di 2.1 miliardi di euro per 120 progetti nei principali capoluoghi di provincia.

L’ultimo decennio si è aperto dunque con una certa vivacità legislativa, ma negli anni successivi al 2014 non si sono registrate riforme degne di nota. Nel 2017 i nuclei in graduatoria per un alloggio pubblico in Italia hanno superato la soglia delle 600mila domande. Per far fronte alla situazione di emergenza abitativa, il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (Cipe) ha stanziato un fondo di 350 milioni di euro, fra vecchi residui di spesa e nuovi finanziamenti, da destinare a programmi di edilizia sociale a consumo di suolo zero(4). Nel 2019 il Ministero delle Infrastrutture, attraverso un finanziamento di circa 850 milioni di euro di fondi ex-Gescal in giacenza, ha varato il Programma Innovativo della Qualità dell’Abitare (PINQuA), un programma rivolto direttamente ai Comuni e che è stato poi inglobato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e rifinanziato(5).

Nel 2020, poco prima dell’esplosione della pandemia, la Corte dei Conti ha avviato un’indagine sull’efficacia dei diversi contributi all’affitto erogati dal Governo, anche tracciando un bilancio complessivo sul tema della casa. La delibera n.9 del 2020 è diventata così uno strumento che inquadra il tema della casa sia da un punto di vista giuridico sia amministrativo, e che detta prescrizioni – a oggi disattese. Tra queste, l’istituzione di un Osservatorio nazionale sulla condizione abitativa, “la cui centralità per la definizione delle politiche abitative tanto a livello nazionale quanto locale è emersa in modo evidente dalle risultanze della presente indagine”. Mentre la delibera veniva redatta, in Italia scoppiava la pandemia Covid-19, le cui ripercussioni sono durate negli anni successivi.

Il 21 luglio 2020, in risposta alla crisi sanitaria che tutti i paesi europei stavano affrontando, il Consiglio europeo ha deliberato l’istituzione del Next generation Eu (NgEu), uno strumento di rilancio dell’economia europea attraverso un fondo dedicato di 800 miliardi di euro. I Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza sono diventati lo strumento operativo con cui NgEu ha finanziato i vari stati. L’Italia ha ricevuto in tutto 210 miliardi di euro distribuiti su sei missioni: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute. Sebbene sia complesso fare una valutazione su un Pnrr ancora in corso, la cui conclusone è prevista per la metà del 2026, diverse criticità sono già emerse.

Bisogna intanto dire che le misure straordinarie messe in atto con il Pnrr prevedono la realizzazione di programmi e progetti che non devono però essere scambiate per riforme strutturali, in quanto rappresentano soltanto obiettivi di settore.

Una prima e poderosa svista del Pnrr è quella di non aver messo a punto strumenti per implementare lo stock di alloggi pubblici, anche data l’emergenza abitativa che si è scatenata a seguito della pandemia: i principali programmi come i PINQUA – di cui si è detto – e i PUI – Piani Urbani Integrati– sono piani per la rigenerazione di complessi già esistenti.

Al tempo stesso, mentre per la transizione ecologica del patrimonio residenziale privato il Pnrr dedica ingenti risorse, nulla era previsto per l’abbattimento dei consumi energetici del patrimonio pubblico – una situazione paradossale considerato il suo stato manutentivo. Il Governo è stato così costretto a varare il Fondo complementare al Pnrr a cui ha destinato due miliardi di euro, per questo scopo. In ultimo, anche l’importante finanziamento di 1.2 miliardi di euro per la realizzazione di alloggi per gli studentati fuori sede risente di un orientamento che privilegia operatori privati, in assenza di adeguate garanzie sulla destinazione dei posti agli studenti nelle graduatorie per il diritto allo studio e sui canoni finali degli alloggi. Si sarebbe potuto invece puntare sul pubblico, ad esempio sulle aziende pubbliche di edilizia residenziale che avrebbero garantito un servizio pubblico e al tempo stesso integrato i propri bilanci. Per una analisi più completa delle politiche sulla casa contenute nel Pnrr rimandiamo alla pubblicazione della Caritas Diocesana: Casa e Abitare nel Pnrr, analisi e prospettive. In sintesi, se gli effetti del Pnrr saranno visibili tra un paio di anni, possiamo già dire che il Piano non inciderà sui principali nodi critici della questione abitativa che esamineremo nel prossimo paragrafo, anche perché il Piano è un insieme di azioni e non di riforme strutturali di sistema.


Questioni irrisolte


In Italia non conosciamo il numero delle case popolari così come non conosciamo il numero complessivo dei nuclei in attesa di un alloggio pubblico. Infatti la maggior parte dei dati che circolano sono stime, perlopiù grossolane, ormai datate. Questo sarebbe già un motivo sufficiente per istituire un Osservatorio Casa o sulla condizione abitativa. Ma cerchiamo di chiarire il problema: l’attuale situazione di assenza di informazioni certe è stata determinata dalla decentralizzazione di poteri e competenze sulla casa, senza la previsione di un ruolo almeno di coordinamento centrale dello Stato. Dunque il tema abitativo è diventato un tema degli enti locali, dei Comuni e delle Regioni. Al tempo stesso la gestione delle competenze e delle proprietà è molto articolata: i Comuni si occupano dei bandi per l’assegnazione delle case, e quindi dei nuclei in attesa, e detengono una quota di patrimonio attraverso. Le aziende territoriali di gestione – Ater, Aler, IACP e SPA ecc – dipendono invece dalle Regioni e detengono la quota maggioritaria di patrimonio residenziale. In questa articolazione, ripetuta in ogni Regione, manca un organo di coordinamento o perlomeno in grado di raccogliere le informazioni.

Per avere un esempio della difficoltà di raccogliere le informazioni sul tema della casa in Italia, basta consultare il sito dell’Osservatorio per l’edilizia residenziale pubblica di Federcasa, associazione che raccoglie tutti gli enti gestori regionali italiani, dove è ben evidenziato che l’ultimo aggiornamento dei dati, peraltro parziali perché non tutti gli enti gestori del patrimonio pubblico li hanno inviati, risale al 2017 (6). Eppure già la legge sugli affitti del 1998 prevedeva l’istituzione di un Osservatorio in grado di svolgere le fondamentali operazioni di raccordo fra enti e di raccolta dei dati. L’importanza di un Osservatorio è stata ribadita a più riprese in questi ultimi dieci anni: quasi costantemente da associazioni sindacali e da esperti di settore, dalla già citata Delibera della Corte dei Conti nel 2020, e dal Gruppo di lavoro interministeriale per il contrasto al disagio abitativo del 2022(7). Sempre nel 2022 è stato istituito presso il Ministero delle Infrastrutture l’OSCA, Osservatorio Nazionale della Condizione Abitativa, ma da allora non se ne hanno notizie. La vicenda dell’Osservatorio è emblematica dell’abbandono in cui versano le politiche abitative, e può essere riassunta così: senza dati e analisi è impossibile pianificare ed elaborare una strategia sulla casa. Certo, se si sceglie di non avere alcuna strategia, allora i dati non servono, sono superflui. Di fatto la vicenda dell’Osservatorio evidenzia il clima da laissez faire che ha contraddistinto il tema casa dagli anni Novanta. Il paradosso è che mai come in questi ultimi dieci anni vi sono stati poderosi investimenti sulla digitalizzazione delle Amministrazioni Pubbliche. La Missione 1 del Pnrr per la digitalizzazione dovrebbe assorbire il 20% dell’intero investimento del Piano in base alla programmazione del Next Generation Eu. Tuttavia nessuno ha pensato di utilizzare simili risorse per dotare il sistema casa di una infrastruttura di comunicazione e interscambio tra amministrazioni ed enti pubblici coinvolti.


La gestione del patrimonio residenziale pubblico


Uno dei nodi meno dibattuti, ma fondamentale per via delle ripercussioni che ha su tutto il settore della casa, è quello della gestione degli alloggi pubblici. Negli anni il trasferimento di poteri dallo Stato agli enti locali ha di fatto trasformato le politiche della casa in politiche a scala territoriale. In questo trasferimento non è mai stato chiarito come finanziare la gestione degli alloggi, visto che per legge gli enti gestori devono applicare un canone, pagato dagli inquilini, molto al di sotto dei valori di mercato, e con questo modesto introito provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria. Al tempo stesso la maggior parte dei gestori italiani sono stati trasformati in aziende pubbliche, quindi con obbligo del pareggio di bilancio. La stessa legislazione regionale che regolamenta gli enti pubblici gestori individua tre modalità con cui questi possono pareggiare il bilancio: la prima è attraverso la riscossione delle locazioni, la seconda è attraverso i finanziamenti pubblici e la terza è attraverso la vendita del patrimonio. Ma essendo i finanziamenti pubblici scarsi e l’incasso delle locazioni ovviamente non commisurato ai bisogni gestionali, non rimane che ricorrere strutturalmente alla terza modalità. Dunque anche la vendita del patrimonio pubblico è collegata alle esigenze di bilancio degli enti gestori e al mancato finanziamento delle locazioni pubbliche. Federcasa stima che il numero degli alloggi pubblici negli anni Novanta fosse di un milione e trecentomila, mentre oggi si sono ridotti a 900 mila. Le necessità di bilancio alimentano i piani di vendita delle case popolari, erodendo il patrimonio pubblico proprio quando ce ne sarebbe più bisogno. I piani di dismissione sono ancora in corso – a Roma una ricerca ha rivelato che vi sono attualmente 14mila alloggi in vendita – e vengono giustificati con una legge – la 560 del 1993 – redatta in un’altra fase storica, che consentiva l’alienazione fino al 75% dell’intero patrimonio per fare cassa. In Italia di fatto non si è mai stabilito chi deve colmare quel gap fra gli incassi determinati da locazioni sociali e l’importo necessario per realizzare una gestione immobiliare virtuosa; ossia coprire le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, di gestione e pulizia, e i costi della struttura amministrativa degli enti, compresi gli stipendi degli addetti. Bisogna ricordare che i canoni dell’edilizia pubblica partono da 7,70 euro al mese, una cifra di sicuro non sufficiente a coprire le spese gestionali. In Francia e Germania i canoni di locazione degli alloggi pubblici partono da 5 euro al metro quadro, dunque i canoni sono più alti che in Italia, ma al tempo stesso i sussidi nazionali per la povertà integrano quella parte di canone che eccede quanto gli affittuari possono pagare. In questo modo si è separata la gestione immobiliare dalla gestione della povertà, si assicurano i corretti introiti agli enti gestori locali e lo Stato si occupa delle integrazioni necessarie al reddito per far funzionare il sistema. Questo da noi non avviene: si scarica tutto il problema della povertà sulla gestione immobiliare degli enti locali, con conseguenza nefaste sia per la gestione immobiliare sia per le condizioni socio-economiche dei nuclei. Al tempo stessi gli enti gestori, stretti fra le necessità di bilancio e gli scarsi introiti, oltre a dismettere il patrimonio tagliano dove possono tagliare, ovvero sulle manutenzioni. Questo è testimoniato dalle generali condizioni manutentive del patrimonio residenziale pubblico in Italia. E dove questo patrimonio è concentrato, ovvero nei grandi quartieri periferici, il degrado degli edifici diviene degrado del quartiere, sommando alle già difficili condizioni socio economiche degli abitanti anche quelle manutentive degli edifici. Il tema della gestione dell’edilizia residenziale pubblica incide quindi a diversi livelli: da un lato è responsabile della erosione costante e continuativa del patrimonio attraverso le vendite, e dall’altro è anche responsabile del suo disfacimento fisico per colpa delle scarse manutenzioni. Una situazione complessa e di difficile risoluzione, ma che impone una riflessione profonda anche perché più il tempo passa più la situazione peggiora.


Mercato degli affitti, locazioni turistiche e sistema dei sussidi


La legge che regola il mercato degli affitti in Italia – la n. 431– è del 1998: è stata scritta in un’altra epoca, e con altre finalità. Risale infatti a una fase in cui le locazioni turistiche non esistevano e il problema della casa si credeva essenzialmente risolto. Bisogna ricordare che proprio in quegli anni veniva abrogata la Gescal, ossia la tassa di finanziamento dell’edilizia residenziale pubblica, e venivano pianificate le dismissioni del patrimonio pubblico. Oltretutto, la legge non è mai stata completamente applicata: ad esempio prevedeva la costituzione di un Osservatorio al fine di tarare lo stanziamento annuale dei sussidi in base alle esigenze rilevate. Come abbiamo già visto, l’Osservatorio non è mai entrato in funzione, lasciando liberi i governi che si sono succeduti di stanziare i fondi in base alle disponibilità e non in base alle esigenze, due cose ben diverse(8).

Negli ultimi anni i sussidi per l’affitto sono stati azzerati lasciando i comuni soli a fronteggiare il caro affitti, mentre in tutta Europa i sussidi sono strutturali da anni e – come visto nel paragrafo precedente– integrano anche il sistema dell’edilizia residenziale pubblica. Al tempo stesso, dopo anni di dibattiti, si è deciso di attribuire un codice identificativo alle locazioni turistiche, una misura che entrerà in vigore a Gennaio 2025 e che consente solo l’identificazione degli alloggi turistici ufficiali. Ma nulla si dice circa l’opportunità di regolamentare e limitare questo tipo di locazioni. Solo alcune Regioni come la Toscana(9) hanno nel frattempo legiferato sul tema e di fatto l’unico freno al dilagare del fenomeno è stata la Circolare del Capo della Polizia Vittorio Pisani che almeno impone che l’identificazione dal vivo degli ospiti rendendo di fatto più complesso la locazione che prima veniva fatta on-line e con l’ausilio delle key-box. Considerando la vetustà della legge che regola le locazioni, l’incertezza nella erogazione dei sussidi e le nuove esigenze determinate dall’avvento delle locazioni turistiche, forse i tempi sono maturi per una nuova legge che tenga conto della complessità dei tempi. Alla base di una nuova legislazione ci dovrebbe essere una strategia nazionale sul mercato delle locazioni. Come abbiamo già evidenziato nei precedenti rapporti, il mercato delle locazioni in Italia è un mercato estremamente esiguo non solo rispetto alla domanda ma in generale rispetto all’intero stock immobiliare: in totale – pubblico e privato – rappresenta solo il 18,5%.

Oltretutto è un mercato, per diverse cause, in continuo restringimento: anno dopo anno vengono erose quote importanti a favore della proprietà.


C17. Grafico 3 • Italia, abitazioni occupate da persone residenti per titolo di godimento secondo i censimenti ISTAT 1951- 2021



C17. Grafico 4 • Italia, percentuali di abitazioni per titolo di godimento



Un mercato così strutturato favorisce la lievitazione dei prezzi e rende il bene casa in affitto facilmente attaccabile, come sta accadendo in questi anni con le locazioni turistiche.

A Milano vi sono 20mila alloggi in locazione turistica su uno stock totale di 100mila in locazione ordinaria; a Roma il rapporto è di 30mila in locazione turistica su uno stock di 188mila case in locazione. Le locazioni turistiche insomma assumono un peso notevole e incidono ovviamente sulle dinamiche dei prezzi e sulla scarsità del bene su un mercato così piccolo. Al tempo stesso le case non occupate in Italia, in costante crescita negli ultimi anni, secondo il Censimento Istat 2021 hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 10 milioni di abitazioni (Istat). Ovviamente non tutte sono libere e non tutte si trovano in Comuni ad alta tensione abitativa, ma potrebbero essere una risorsa importante da reimmettere nel mercato delle locazioni. L’intero settore, che è regolato da una legislazione ormai obsoleta, andrebbe riordinato tenendo conto della complessità della situazione che ci troviamo ad affrontare.


Conclusioni


Le politiche della casa, o meglio dell’abitare, sono uno strumento di mitigazione di problemi socio-economici di cui, a giudicare lo stato delle nostre città, avremmo molto bisogno. Sebbene il quadro legislativo italiano sia sostanzialmente rimasto immutato dagli anni Novanta, in questa ultima fase è cresciuta la consapevolezza che le nostre città sono sempre più inospitali: dai centri storici ormai privi di abitanti fino alle difficili condizioni delle periferie, le città si stanno trasformando in luoghi di crescenti diseguaglianze. Negli ultimi anni i fenomeni espulsivi hanno riguardato non solo le fasce più deboli della popolazione, ma anche una parte del ceto medio che ha preferito trasferirsi in comuni di provincia, attratta da una vita più tranquilla e da costi minori. I dati di Roma e Milano sono impressionanti: sono circa 400 mila le famiglie che lavorano nei capoluoghi ma abitano in provincia. L’aumento del pendolarismo ha conseguenze importanti sul sistema dei trasporti e sulla viabilità, oltre che sull’aumento dell’inquinamento. Ma il fenomeno non è stato governato. Ad essere maggiormente interessati dall’aumento del pendolarismo sono stati quei comuni che già godevano di rapide connessioni con le città, come ad esempio quelli che trovavano lungo assi ferroviari. Questo avrebbe generato, secondo alcuni, vere e proprie città lineari. Dunque la questione abitativa non può essere letta come qualcosa che riguarda fasce sociali ‘fragili’, ma riguarda la collettività. Le dinamiche dell’abitare agiscono in profondità nelle nostre città a volte stravolgendo tessuti sociali senza modificare le architetture, come nel caso dei centri storici, altre volte trasformando radicalmente il paesaggio, come nei nostri hinterland. Tuttavia le politiche abitative vengono ancora lette e presentate come politiche settoriali per rispondere ai bisogni delle classi più deboli e non come strumenti di governo di sistemi urbani complessi. Mentre si fatica a finanziare misure, come il contributo per affitto, ormai strutturale in tutta Europa, risulta arduo parlare in Italia di politiche per l’abitare che riguardino l’innalzamento della qualità della vita nei grandi centri urbani. Nonostante questo, le diverse sensibilità in gioco sono mutate, si è iniziato a prendere consapevolezza che la maggior parte di questi fenomeni sono collegati, e questo fa ben sperare per il futuro.



Raccomandazioni


  • Istituire l’Osservatorio Nazionale sulle Politiche abitative e sulla Qualità urbana.


  • Rifinanziare il contributo all’affitto e il contributo alla morosità incolpevole.


  • Una nuova legge per gli affitti che tenga conto della complessità della situazione, dalle nuove locazioni turiste alle case vuote.


  • Sviluppare politiche per l’integrazione fra sussidi nazionali e case popolari in modo da non scaricare il problema della povertà sugli enti locali.


  • Una legge quadro che riconosca l’Edilizia Residenziale Pubblica come infrastruttura strategica nazionale.





Note


(1) - https://www.dinamopress.it/news/l-art-5-del-piano-casa-di-renzi-e-lupi-e-il-diritto-ad-esistere/

(2) - https://lavoce.info/archives/71917/case-popolari-lanzianita-di-residenza-requisito-ingiusto/

(3) - https://www.mit.gov.it/comunicazione/news/aree-urbane-degradate-pubblicato-il-bando-per-la-riqualificazione

(4) - https://ricerca-delibere.programmazioneeconomica.gov.it/media/docs/2017/E170127.pdf

(5) - https://trasparenza.mit.gov.it/index.php?id_oggetto=38&id_doc=104526

(6) - https://www.federcasa.it/osservatori/osservatorio-erp

(7) - Decreto Ministeriale 122 del 06/07/2022

(8) - https://osservatoriocasaroma.com/2023/02/21/annullato-anche-il-contributo-allaffitto-in-italia-non-esiste-piu-una-politica-della-casa/

(9) - https://www.t24economia.it/art/affitti-brevi-in-toscana-il-nuovo-testo-unico-del-turismo-e-legge

(10) - Enrico Puccini, Federico Tomassi, La condizione abitativa nelle case popolari a Roma, in Inchieste sulla casa in Italia, La condizione abitativa nelle città italiane nel secondo dopoguerra, a cura di Daniela Adorni, Daniele Tabor, Viella, Roma, 2019.

(11) - Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 175 del 27.07.2024 la Legge del 24 luglio 2024 n. 105 di conversione, con modificazioni, del Decreto legge del 29.05.2024 n. 69

(12) - https://www.carteinregola.it/wp-content/uploads/2024/12/dl-interpretazione-autentica-ateria-urbanistica-testo-a-fronte-versioni-commissione-ambiente-leg.19.pdl_.camera.1987_A.19PDL0116030.pdf

(13) - https://www.milanotoday.it/politica/nuove-inchieste-urbanistica-salva-milano.html

Fabrizio Ceruso

Fabrizio Ceruso

(Tivoli, 1955 - Roma, 1974)
IN RICORDO DI FABRIZIO CERUSO, UCCISO DALLA POLIZIA L’8 SETTEMBRE DEL 1974 A SAN BASILIO MENTRE MANIFESTAVA PER IL DIRITTO DI TUTTI AD AVERE UNA CASA

Era il 1974. Fabrizio Ceruso aveva 19 anni. Originario di Tivoli, vicino all’Autonomia operaia, padre netturbino e madre casalinga. Finito l’alberghiero, era andato a lavorare in Francia; giusto il tempo di mettere da parte qualche soldo e tornare in Italia. Serviva infatti una mano alla famiglia per il trasloco: avevano ottenuto finalmente una casa popolare dopo anni di attese. Ce l’avevano fatta, loro, a differenza di altri. Mentre palazzinari e affaristi si arricchivano, nelle borgate romane ottenere la casa popolare era diventata una vera e propria chimera. I Ceruso ce l’avevano fatta, ma per Fabrizio non importava: bisognava lottare affinché tutti potessero avere la tranquillità di un tetto sulla testa. In quegli anni occupazioni e sgomberi si susseguivano a grande ritmo. La borgata di San Basilio era uno dei punti caldi di Roma e teatro, nel settembre del 1974, di una grande rivolta per il diritto alla casa. Quando le forze dell’ordine giunsero nel quartiere per sgomberare centinaia di famiglie iniziò una vera e propria battaglia. La polizia attaccava con manganelli, lacrimogeni e colpi di arma da fuoco. Venne ferita persino una bambina di 12 anni: la rabbia di San Basilio allora esplose completamente. Gli abitanti del quartiere alzarono barricate e si difesero come possibile, mentre arrivavano di continuo rinforzi dagli altri quartieri della capitale. Partirono sassaiole e molotov: la battaglia infuriò per giorni interi.

Fabrizio l’8 settembre era lì, tra quelle barricate, giunto subito dopo il trasloco. La polizia spara e non a salve: in via Fiuminata una pallottola raggiunge proprio Fabrizio. Lo centra nel petto. Arriva un taxi che carica Fabrizio e alcuni suoi compagni, come viene ricordato in questa testimonianza:

“Non aveva più il casco rosso che portava in testa quando lo vidi cadere. Non era più a pochi passi da via Fabriano e a dieci metri da me e Roberto che correvamo dietro di lui su via Fiuminata. Eravamo davvero matti a sfidare, in quel momento solo con qualche sasso, i lacrimogeni e le pallottole delle forze dell’ordine. Ma forse erano più matti coloro che componevano il quinto governo Rumor, cioè i massimi responsabili politici della morte di Fabrizio Ceruso”.

“Al Policlinico! Al Policlinico!”, urlò uno di loro al tassista.

“Corri! Corri!”, disse un secondo passeggero.

“Hanno ammazzato mio fratello!”, esclamò un altro durante il tragitto verso l’ospedale.

Fabrizio morì poco dopo. “Hanno ammazzato mio fratello”, non un fratello biologico ma un fratello di sangue, un fratello che diede la sua vita per chi non aveva qualcosa che lui e la sua famiglia naturale avevano già: una casa. Non morì invano: Il giorno dopo nel consiglio regionale del Lazio assegnò di diritto un’abitazione alle famiglie che per bisogno avevano occupato una casa prima dell’8 settembre.