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Dati sensibili

Il 2023 e il 2024


Dal punto di vista della protezione dati il 2023 e il 2024 hanno rappresentato uno snodo importante nella storia e nell’evoluzione di questa disciplina. Essa si è infatti dovuta confrontare con i profondi mutamenti indotti, nel contesto sociale, dalla sempre più rilevante penetrazione e diffusione delle neotecnologie che, alimentandosi principalmente di dati (soprattutto personali), determina implicazioni importanti sulla riservatezza.

L’elemento maggiormente significativo ha riguardato, in questo senso, l’ampia diffusione dell’i.a., in particolare generativa. Il ricorso all’i.a. ha riguardato gli scopi e i contesti più vari. Il più drammatico, ma non certo inatteso, è stato l’uso bellico che si è fatto della potenza di calcolo, nell’ambito della guerra russo-ucraina e, a partire dal 7 ottobre 2023, anche nell’ambito della guerra in Palestina. In entrambi questi contesti è infatti emerso come la potenza di fuoco dell’algoritmo rischi di amplificare in misura geometrica la forza offensiva delle armi, senza una totale capacità di previsione dei suoi effetti e di controllo da parte dell’uomo.

E se nel contesto russo-ucraino ampio è stato il ricorso ai droni, a Gaza i rischi dell’uso dell’i.a. a fini bellici è stato reso evidente da sistemi, quale ad esempio Lavender, utilizzati per identificare i target, ma rivelatasi subito capaci di determinare un amplissimo numero di vittime, peraltro civili, collaterali. Un servizio di The Guardian ha dimostrato, infatti, l’imputabilità a sistemi come questi dell’elevatissimo numero di civili uccisi, preterintenzionalmente, nella striscia di Gaza. E se questi sono gli effetti di sistemi di i.a. che, pur in parte, ammettono un intervento umano, preoccupano, a fortiori, quelli come le armi autonome, che da questo prescindono o possono prescinderne, tanto da aver suggerito il rischio di una nuova bomba atomica.

Un ulteriore utilizzo peculiare dell’i.a. ha riguardato l’ambito neuroscientifico. Nel 2023 è stato infatti autorizzato negli Stati Uniti un dispositivo che, combinando scansione cerebrale e modelli linguistici del tipo di quelli utilizzati da Chat Gpt, riescono a decodificare i segnali neurali per far eseguire ai robot gli impulsi che gli arti, ad esempio di pazienti tetraplegici, non possono realizzare. Le potenzialità di quest’innovazione sono evidentemente preziose, potendo essa compensare le carenze e le difficoltà di pazienti affetti da gravi patologie, purché tuttavia se ne impedisca l’implicazione ulteriore: quella lettura del pensiero che priverebbe l’uomo del presupposto ineludibile della libertà, ovvero l’inaccessibilità della coscienza.

Proprio nel periodo che interseca anche il 2023 e il 2024 – l’i.a., al di là di questi usi in contesti del tutto peculiari, si è caratterizzata per la diffusione quantomai ampia tra la popolazione.

La penetrazione dell’i.a. nel contesto sociale è stata, in particolare a partire da quell’anno, così estesa e veloce da aver addirittura indotto, nel marzo 2023, mille esponenti delle big tech a invocare, con una lettera aperta, una moratoria sullo sviluppo – ritenuto troppo veloce – dell’i.a. generativa. Chat-Gpt ha assunto, in questo senso, un valore paradigmatico: in pochi mesi è stata scaricata da un numero progressivamente crescente di persone, anche in Italia e utilizzata anche da minori. La carenza di informazioni adeguate sulle modalità di gestione dei dati personali raccolti da questa applicazione, l’assenza di sistemi di verifica dell’età dell’utente tali da impedirne l’uso inconsapevole da parte di bambini e le insufficienti garanzie di veridicità dei contenuti diffusi hanno, così, indotto il Garante per la protezione dei dati personali all’adozione di un provvedimento inibitorio. Impedendo l’utilizzo, sul territorio italiano, di questa applicazione in assenza delle dovute garanzie, è stato così possibile indurre Open Ai (produttore di Chat Gpt) ad adeguarla agli obblighi imposti dal Regolamento europeo sulla protezione dei dati. Inoltre, l’iniziativa italiana ha determinato lo sviluppo, a livello europeo, di un approfondimento trasversale sulla correttezza dell’utilizzo dei dati personali da parte di Chat Gpt, per conformarlo alle garanzie imposte dalla disciplina dell’Unione europea, a tutela della libertà degli utenti.



C16. Grafico 1 • Violazioni di dati personali notificate per tipologia del titolare



C16. Grafico 2 • Notifiche di violazioni di dati ricevute per natura della violazione



C16. Grafico 3 • Segnalazioni e reclami pervenute nel 2023



Non meno rilevante è stata l’iniziativa assunta dal Garante nei confronti della chatbot Replika, carente anch’essa di sistemi adeguati di verifica dell’età nonostante il tenore dei contenuti resi accessibili, non sempre adeguati (ad esempio perché sessualmente espliciti) al grado di sviluppo etico, cognitivo, sociale, dei minori.

Queste iniziative sono state assunte dal Garante parallelamente all’adozione – definitiva nel 2024 – di una disciplina organica dell’i.a. (Ai Act) da parte del legislatore europeo, che introduce obblighi per gli sviluppatori e corrispondenti garanzie per gli utenti, proporzionali al grado di rischio connesso allo specifico sistema di i.a. considerato, sino a quelli vietati tout court perché ritenuti incompatibili con i principi fondativi dell’Unione, tra i quali la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, dello Stato di diritto e dei valori democratici. Particolarmente rilevanti sono, peraltro, le garanzie introdotte per minimizzare il rischio di bias, capaci di amplificare addirittura quelle discriminazioni e precomprensioni dalle quali, invece, la fredda razionalità della macchina avrebbe dovuto liberarci.

Pur con qualche chiaroscuro, l’adozione dell’AI Act ha rappresentato una scelta importante per l’Europa. Tale disciplina – che molto deve alla normativa di protezione dati – sarà a questa complementare e sinergica, per offrire quella tutela organica della persona rispetto alla tecnica che l’innovazione rende sempre più urgente. Molto dell’efficacia di tali norme dipenderà, del resto, dal grado di “leale collaborazione” che le autorità di regolazione nazionali per l’i.a. offriranno alle (e riceveranno dalle) autorità di protezione dati, realizzando quella sinergia istituzionale indispensabile per la regolazione di questioni – quali, appunto, l’i.a. o la protezione dati – intrinsecamente trasversali, tangenti ogni possibile ambito della vita privata e pubblica.

Una delle questioni più drammatiche emerse nel corso del 2023 e del 2024 è stata quella della violenza: praticata o anche solo esibita on-line, la violenza digitale ha assunto ormai contorni preoccupanti. Come ben ha rilevato il Garante, infatti, la rete “rappresenta così non soltanto il “teatro” della violenza ma anche, spesso, un suo fattore propulsivo, capace di mutarne, profondamente, forme di manifestazione e implicazioni, per persistenza, pervasività, emulazione, difficile contenibilità del danno”. In questo senso è significativo il revenge porn, ovvero la minaccia (solo prospettata o anche realizzata) di diffusione di immagini ritraenti momenti intimi, generalmente quale vendetta per scelte sgradite. Il timore della vittima è, in questo caso, legato proprio agli effetti che l’ampia diffusività dei contenuti in rete determina, alla sostanziale impossibilità di mantenerne la signoria, una volta immessi sul web, alla loro tendenziale ubiquità e permanenza. Non a caso, nell’ambito della complessiva (e complessa) attività del Garante, un ruolo importante (anche per la rilevanza quantitativa dei provvedimenti) assume la materia del revenge porn, rispetto al quale l’Autorità può ordinare di bloccare il caricamento di contenuti intimi di cui si tema la diffusione, prevenendo in tal modo il pregiudizio prefigurato.

Ma ciò che è emerso con maggiore rilevanza nell’estate 2023 è la riedizione digitale della violenza fisicamente e tragicamente praticata off line. Ci riferiamo, in particolare, al dramma degli stupri, commessi spesso in gruppo ai danni di ragazze spesso sole e, addirittura, filmati per poi essere diffusi in rete, persino esibiti quasi come trofei. La tragedia vissuta dalle vittime resta così impressa loro, tendenzialmente per sempre, dalla fissità di un’immagine di sopraffazione e prevaricazione, resa accessibile potenzialmente a chiunque, in qualunque parte del mondo, in qualsiasi momento. Alla vittimizzazione secondaria di chi la violenza subisce corrisponde, così, l’efferatezza di chi quella violenza agisce e rappresenta e diffonde. A questa spirale intollerabile di violenza è seguita, da parte del Governo, l’adozione del “decreto-legge Caivano” (evocativo appunto di uno dei più drammatici casi di violenza che hanno segnato il 2023) che, ritenendo di poter risolvere un problema di tale complessità con un approccio in primo luogo repressivo, ha fortemente inasprito le pene di alcune fattispecie e introdotto aggravanti specifiche.

Le misure lato sensu preventive, invece, si sono incentrate sul profilo digitale con la previsione, tra le altre, di forme più efficaci di age verification per l’accesso a contenuti – quali quelli pornografici – inadatti ai minori. Queste ultime norme hanno rappresentato, in particolare, misure sicuramente utili per riequilibrare, almeno in certa misura, il rapporto tra i giovani e le neotecnologie, che tuttavia va inscritto all’interno di una più profonda consapevolezza da promuovere attraverso una vera e propria educazione digitale. Solo con un’adeguata formazione sul senso e le implicazioni di ogni nostro click si può, infatti, comprendere realmente la portata dei contenuti diffusi e la loro potenziale lesività, tentando almeno in parte di contenere la spirale d’odio e violenza che, troppo spesso, caratterizza le relazioni in rete.

Tra il 2023 e il 2024 è stata poi rilevante l’attenzione del legislatore a quel peculiare aspetto della riservatezza (in particolare, delle comunicazioni) che può essere limitato per esigenze di giustizia, soprattutto mediante le intercettazioni. Durante questo periodo, infatti, si è volto l’esame parlamentare del disegno di legge governativo per la riforma del processo penale e, in particolare, della disciplina delle intercettazioni. Questa proposta prevede, segnatamente, un significativo rafforzamento delle garanzie di riservatezza dei terzi, per altro verso, circoscrivendo l’ambito circolatorio (endo- ed extra-processuale) delle conversazioni captate. Tuttavia, tale risultato è perseguito limitando la possibilità di pubblicazione delle intercettazioni ai soli contenuti riprodotti dal giudice in propri provvedimenti, dunque con una corrispondente, rilevante, limitazione dell’ambito di esercizio del diritto di cronaca. Tali modifiche si aggiungono, peraltro, alla delega legislativa (derivante dall’approvazione di un emendamento a firma dell’on. Costa) volta a prevedere il divieto di pubblicazione integrale o per estratto dell’ordinanza di custodia in fase di indagini, che ulteriormente circoscrive l’ambito di esercizio del diritto di e all’informazione.

Ciò che tuttavia - come osservato anche dal Garante in sede di audizione e parere sul ddl Nordio - merita un’iniziativa legislativa specifica è il rapporto tra tecnica e attività d’indagine. In questa prospettiva vanno infatti rafforzate ulteriormente le garanzie per le intercettazioni mediante trojan, le cui potenzialità acquisitive le rendono uno strumento investigativo radicalmente diverso, per potenza e rischiosità, dal suo corrispondente tradizionale.

Un aspetto ulteriormente meritevole di considerazione, come sottolineato dal Garante, riguarda il bilanciamento tra pubblicità degli atti processuali (realizzata prevalentemente per via digitale) e privacy delle parti e dei terzi coinvolti.

Un aspetto particolarmente delicato di tale questione riguarda la riproduzione audiovisiva e fonografica degli atti processuali, assurta a modalità generale di documentazione, destinata ad affiancare il verbale per gli atti del procedimento, quale modalità preferenziale di documentazione dell’interrogatorio di garanzia dell’indagato o forma di documentazione dell’assunzione dibattimentale dei mezzi di prova.

Si tratta di un’innovazione importante, che determina anche l’applicabilità a tali atti, documentati digitalmente, del regime ordinario di pubblicità, con il rischio dell’indiscriminata diffusione di dati eccedenti le reali esigenze informative, soprattutto se appartenenti alle categorie particolari cui l’ordinamento accorda una tutela rafforzata, sino al divieto di diffusione per i dati sanitari, genetici, biometrici. Per questo si è proposta, in particolare da parte del Garante, l’introduzione di un regime speciale di pubblicità degli atti così documentati, che possa coniugare le esigenze di pubblicità, espressione del principio di cui all’art. 101, I c., Cost. e il diritto alla riservatezza.

Peraltro l’evoluzione tecnologica ha lasciato emergere, parallelamente a nuove forme di realizzazione dei reati, anche modalità nuove e diverse di conduzione delle indagini, che necessitano tuttavia di essere normate in aderenza alla realtà che riflettono, ma sempre coniugando privacy ed esigenze investigative. E’ il caso, ad esempio, dell’acquisizione delle chat sui c.d. criptofonini, che ha determinato nel 2023 un contrasto giurisprudenziale – poi composto, in parte, dall’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione- sulla disciplina applicabile, in assenza di una specifica che tenga conto delle caratteristiche di questa fattispecie, assolutamente peculiare.

Un intervento particolare ha riguardato la privacy dei richiedenti protezione internazionale e dei minori stranieri non accompagnati, rispetto ai quali il d.l. 145 del 2024, convertito con modificazioni dalla l. 187, ha introdotto alcune norme speciali. In particolare, è stato previsto che, in caso d’inosservanza dell’obbligo di cooperazione del richiedente protezione internazionale (o del migrante trattenuto nei centri per il rimpatrio) con le autorità a fini identificativi, ufficiali e agenti di p.s., su disposizione del Questore procedano all’accesso immediato ai dati identificativi dei dispositivi e supporti di dati elettronici e delle eventuali schede elettroniche (S.I.M.) o digitali (eS.I.M.) in possesso dello straniero, nonché ai documenti, anche video o fotografici, contenuti nei medesimi dispositivi”, escluse la corrispondenza e “qualunque altra forma di comunicazione”. Tale forma di accesso è prevista, sulla base dei medesimi presupposti, anche per i minori stranieri non accompagnati. Sono previste la convalida delle operazioni da parte del giudice di pace o, nel caso di minorenni, del Tribunale dei minori e l’inutilizzabilità (con relativa cancellazione) dei dati illegittimamente “controllati” in caso di mancata convalida, anche solo parziale. Alle operazioni di accesso è previsto che possa presenziare il migrante, con assistenza del mediatore culturale e, ove nominato, l’esercente poteri tutelari per i minori e si dà luogo a verbalizzazione sul contenuto della perquisizione. In sede di audizione parlamentare il Garante ha sollecitato una riflessione sull’ampiezza del potere ispettivo in tal modo conferito alle forze di polizia, suggerendo di circoscriverlo in modo da evitare acquisizioni di date sproporzionate rispetto al fine identificativo.



Una panoramica degli ultimi dieci anni


Nei dieci anni in cui si è sviluppato il Rapporto, il diritto alla protezione dei dati personali ha subito un’evoluzione profondissima, dovuta anche alla stretta correlazione che esso ha con la tecnica e, quindi, con la sua quanto più incessante evoluzione. In questo arco di tempo, infatti, quello che ancora poteva ritenersi come un diritto anche in certa misura “marginale”, ad applicazione circoscritta, è divenuto progressivamente sempre più centrale nella vita privata e pubblica, baricentrico rispetto alla tenuta di ogni altro diritto o garanzia e ancor più lo sarà con la capillare diffusione dell’i.a.

Il percorso tracciato in questi dieci anni ha così delineato il diritto alla protezione dei dati personali quale diritto d’“inviolata personalità” senza il quale la democrazia rischia di cedere alla logica totalitaria dell’uomo di vetro e la rete di ridursi a spazio anomico dove globalizzare non le libertà ma l’indifferenza ai diritti. In tal senso è stata indubbiamente determinante la consapevolezza raggiunta, a livello mondiale, in seguito al Datagate, sulle massive acquisizioni di dati personali realizzate dai servizi di intelligence statunitensi ai danni di cittadini americani e non, a prescindere da indizi di reità o dal coinvolgimento in attività criminali. Si è infatti potuto riflettere, a livello mondiale, non solo sugli illeciti commessi dalle agenzie d’intelligence (e dunque sulla “patologia” di un’azione antiterrorismo così concepita), ma sugli eccessi connessi persino al fisiologico esercizio di poteri così pervasivi e sottratti a controlli di organi esterni (soprattutto giurisdizionali) e a presupposti effettivamente selettivi. Il dibattito che ne è seguito ha favorito, a livello globale, una presa di coscienza dell’importanza della privacy quale necessario presupposto di democrazia e libertà, rimodulando l’equilibrio tra sicurezza pubblica e diritti individuali, nell’America post 11 settembre, troppo sbilanciato in favore della prima. Ne è uscito anche rafforzato il modello europeo di disciplina della privacy e, in generale, l’orientamento adottato in Europa per garantire che il contrasto del crimine non comprima del tutto il nucleo essenziale dei diritti fondamentali che, come sancisce la Carta di Nizza, deve restare intangibile. Quest’idea ha ispirato del resto anche la sentenza Digital Rights dell’aprile 2014, con cui la Corte di giustizia – inaugurando un indirizzo giurisprudenziale che sarebbe stato determinante negli anni seguenti - ha dichiarato l’illegittimità della direttiva sulla data retention, nella parte in cui autorizzava l’acquisizione dei tabulati per generiche esigenze di sicurezza, anche in assenza del vaglio giudiziale e di specifici presupposti di pericolosità del soggetto, consentendo oltretutto il trasferimento di questi dati in territori extra-Ue e dunque il loro utilizzo secondo discipline assai meno garantiste di quella europea.

Altrettanto importante per gli sviluppi futuri sarebbe stata la sentenza del maggio 2014 sul “diritto all’oblio”, con cui la Corte di giustizia ha imposto a un motore di ricerca (con la sede principale in territorio extra-Ue, quale Google), la deindicizzazione di dati (relativi a un pignoramento subito dal ricorrente) pur veritieri, ma inerenti a una vicenda risalente a 15 anni prima, il cui interesse era quindi sfumato in misura tale da giustificarne la rimozione non dagli archivi dei giornali, ma dai motori di ricerca generalisti, così contenendo il danno all’immagine del ricorrente, derivante dalla perenne associazione (quasi uno stigma) tra il suo nome e quella vicenda. Se l’interesse pubblico- pur affievolito nella sua attualità - può infatti legittimare, in casi del genere, la permanenza della notizia nel sito-sorgente, consentendo così la piena ricostruzione storica della vicenda, proprio il decorso del tempo può, invece, imporne la sottrazione ai motori di ricerca e alla loro attività di “profilazione”. La sentenza ben chiarisce, infatti, come il servizio offerto dai motori di ricerca sottenda non solo un vero e proprio trattamento di dati personali ma, soprattutto, un’ingerenza nella vita privata assai più rilevante di quella che deriva dalla pubblicazione della singola pagina web, poiché offre una visione complessiva, strutturata delle informazioni relative a una persona; un profilo dettagliato.

Rilevante, nell’arco di tempo considerato, anche l’evoluzione che ha caratterizzato il rapporto tra giornalismo e privacy, nella continua tensione tra diritto di (e all’)informazione e tutela della dignità della persona. L’equilibrio tra queste due istanze è stato talora messo in crisi da una spesso inconsapevole confusione del pubblico interesse con ciò che è di interesse del pubblico. Essa si è verificata – assieme a un accanimento informativo a volte deformante - soprattutto rispetto ai procedimenti penali e, in particolare, a quelli di grande risonanza, per i quali l’urgenza (reale o presunta) del pubblico, di dare un nome e un volto al colpevole, porta a spostare il processo dal tribunale alla stampa. Si sono registrati anche eccessi informativi come nel caso della pubblicazione di stralci di intercettazioni effettuate durante il colloquio tra Filippo Turetta e i propri genitori, nel carcere di Verona il 3 dicembre 2023, rispetto alla quale il Garante ha avviato un’istruttoria nell’agosto 2024.

In linea generale, non si tratta della sola, doverosa esigenza di dare conto dello svolgimento delle indagini (molto più che del giudizio), ma della tendenza a riversare, senza filtri, ogni minimo dettaglio degli atti investigativi sulla stampa, ivi inclusi quelli assolutamente ininfluenti ai fini della descrizione dello sviluppo del procedimento, ma spesso talmente intime da ledere gravemente, se pubblicate, la dignità degli interessati. Tutto questo ha ben poco a che vedere con la doverosa conoscenza del pubblico sull’esercizio della funzione giurisdizionale che, secondo l’art. 101 Cost., è svolta “in nome del popolo”, in quanto espressione massima della sovranità democratica.

Pubblicità del processo è infatti ineludibile garanzia di legalità nel “giusto processo”, ma non sua trasposizione integrale in rete, con ogni singolo dettaglio di vita privata, dell’imputato e dei terzi, che sia presente negli atti giudiziari. E di qui anche il diritto (persino del condannato) all’oblio: a non vedere, cioè, la complessità di una vita ridotta a quell’unica “colpa”, quantomeno a distanza di tempo dai fatti e in assenza di ragioni che rinnovino l’interesse pubblico della notizia. Essenziale, questo, anche per garantire il diritto al reinserimento sociale, che verrebbe altrimenti violato dall’accostamento perenne al condannato (magari anche riabilitato) di un’identità che non gli appartiene più. Il diritto all’oblio nasce, da noi, proprio su questo terreno: in relazione all’istanza di un condannato per terrorismo che, avendo scontato pienamente la sua pena e avendo completato con successo il percorso rieducativo, non tollerava più la costante associazione della sua persona, ormai completamente mutata, a un momento passato della sua vita, cui non poteva ridurre l’intera sua identità.

I frequenti interventi del Garante nel settore del giornalismo dimostrano l’esigenza di una revisione della disciplina del rapporto tra protezione dati e informazione, tale da tenere conto anche dell’effetto che la pubblicazione in rete ha sulle violazioni della privacy, amplificandole in maniera esponenziale e vanificando così anche le garanzie. Buona parte di questi aspetti ben potrebbe essere risolta con un organico aggiornamento del codice deontologico dei giornalisti, anche sancendo garanzie ulteriori per i soggetti meritevoli di una tutela rafforzata – quali i minori e le vittime – e per l’effettivo rispetto della presunzione d’innocenza. Il tentativo – avanzato dal Garante nel 2014 - di procedere in questo senso, non è stato tuttavia definitivamente accolto dall’ordine dei giornalisti, con l’effetto di riversare sul legislatore, tutta intera, la responsabilità di declinare, in ogni suo aspetto, il rapporto tra dignità e informazione. Sarebbe invece utile riprendere questo percorso, che potrebbe rivelarsi complementare alle riforme Orlando del 2017 e “Nordio” del 2024 che hanno, almeno in parte, tentato di limitare i dati (delle parti e dei terzi) non giudiziariamente rilevanti, suscettibili di circolazione endo (e quindi anche extra) processuale.

Un altro aspetto meritevole di riflessione riguarda il rapporto tra pubblicità dei provvedimenti giurisdizionali (attuata sempre più online) e privacy, la cui disciplina dovrebbe essere auspicabilmente rivista per garantire la più ampia pubblicità previa, però, anonimizzazione. Così sarebbe possibile coniugare riservatezza delle parti (e dei terzi); diritto al reinserimento sociale del condannato e presunzione d’innocenza per l’imputato; ampia accessibilità, da parte di ciascuno, al patrimonio giuridico collettivo, di cui le pronunce giurisdizionali costituiscono elemento essenziale, sempre nel rispetto del principio di legittimazione democratica della giurisdizione, di cui all’art. 101 Cost.. Queste istanze, che hanno innervato il percorso seguito dal diritto alla protezione dei dati personali, nei dieci anni considerati, sono tuttora valide anche nel contesto attuale, fortemente mutato dal 2018, per effetto della piena applicabilità della nuova disciplina unionale (GDPR e direttiva 2016/680 per il settore della giustizia penale e dell’attività di polizia). Questa modifica legislativa ha certamente rappresentato uno snodo importante nell’evoluzione del diritto alla protezione dei dati, estendendone l’ambito applicativo e rafforzandone i contenuti e le implicazioni, tra le quali il generale obbligo di responsabilizzazione di tutti i titolari dei trattamenti. Tali garanzie si sono rivelate determinanti in un contesto sociale fortemente segnato dall’economia delle piattaforme, in cui l’apparente gratuità di beni e servizi reperibili online cela, invece, l’alto prezzo pagato, in termini di dati (e, quindi, di libertà) da ciascuno di noi. La monetizzazione del consenso rappresenta, infatti, una delle più rilevanti questioni democratiche di oggi, rispetto alla quale si misura la tenuta del principio di eguaglianza.

In relazione a queste implicazioni della società digitale, con la “datificazione” di tutto che essa comporta, è indispensabile investire sull’educazione (al) digitale di minori e non solo, per rendere ciascuno consapevole dei rischi, oltre che delle potenzialità, che le neotecnologie possono comportare. Quest’aspetto è certamente il più complesso, ma anche il più dirimente, per garantire che - come osservato da Antonello Soro, garante privacy – il progresso non divenga, paradossalmente, socialmente regressivo e la tecnica promuova, anziché limitare, le libertà e i diritti.



Raccomandazioni


  • Investire sull’educazione digitale, soprattutto ma non solo dei minori, quale presupposto ineludibile di cittadinanza e libertà nella società digitale;


  • introdurre misure efficaci di age verification per impedire che gli infraquattrodicenni possano accedere a contenuti non adeguati al loro grado di sviluppo etico e cognitivo;


  • garantire, con un impegno comune dei vari soggetti, istituzionali e non, coinvolti, che il diritto d’informazione venga sempre esercitato nel rispetto della riservatezza individuale e, soprattutto, della dignità della persona, soprattutto quando versi in condizioni di particolare vulnerabilità per stato (minori, malati, ecc.) o condizione congiunturale (detenuti, soggetti sottoposti a misure limitative della responsabilità), promuovendo anche una revisione delle regole deontologiche per il trattamento di dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica;


  • adeguare la disciplina della conservazione dei tabulati per fini di giustizia alle indicazioni della Corte di giustizia, coniugando sempre, in linea più generale, il rapporto tra privacy ed esigenze investigative nella disciplina degli strumenti d’indagine;


  • assicurare un adeguato coinvolgimento del Garante per la protezione dei dati personali nell’attuazione del Regolamento europeo sull’i.a., monitorandone gli effetti sui diritti e le libertà fondamentali.



Chelsea Manning

Chelsea Manning

(Crescent (USA), 1987 - )
TORTURE E PRIGIONIA PER AVER VOLUTO DIRE LA VERITÀ SULLE STRAGI DI INNOCENTI IN IRAQ E AFGHANISTAN: LA STORIA DI CHELSEA MANNING

Quanto si paga la verità? Spesso molto, moltissimo, finanche troppo, in questo mondo. E vale a volte anche più della vita stessa. Quanto si è disposti a pagare per la verità come bene ultimo? Chelsea Manning era disposta a pagare tutto. Se tutto quello che subì fu troppo, sta a lei deciderlo. Nata nel 1987 a Crescent, cittadina dell’Oklahoma, trascorre la giovinezza tra gli USA e il Galles, paese di origine della madre. Si arruola nell’esercito USA ancora giovanissima e viene assegnata in Iraq con la funzione di ufficiale di intelligence. 

E se le prime linee mostrano senza filtri l’orrore della guerra, il sangue e il dolore, spesso una posizione come quella di Chelsea mostra invece un’immagine meno cruenta ma forse più crudele. Quella della politica al servizio del conflitto, quella dell’“interesse nazionale” che vale più della vita di una, dieci, cento o mille esseri umani. In questo caso si parla di persone morte - tra le 12 e le 18, di cui 2 giornalisti Reuters - in un attacco condotto da elicotteri AH-64 il 12 luglio del 2007 a Baghdad. Il Pentagono dirà che si è trattato di “un incidente, erano armati e avevano aperto il fuoco!”.

Un massacro immotivato, invece, diranno i video e i rapporti filtrati tramite il portale WikiLeaks, che mostrarono, appunto, un attacco indiscriminato contro civili disarmati, giornalisti, donne e bambini.  “Ahah, colpiti!”, dirà un soldato. “Guarda un po’ quegli st*onzi, morti ammazzati!”, gli risponderà un commilitone.

Questi documenti vennero inviati al portale proprio da Chelsea Manning, insieme a dozzine di altri rapporti compromettenti riguardanti l’esercito statunitense e le sue azioni in Iraq e Afghanistan.

La verità costa troppo. Chelsea lo scoprì sulla sua pelle. Lo scoprì quando venne rinchiusa, nel maggio del 2010, in una cella minuscola in Kuwait. Due metri e mezzo per due metri e mezzo. Poi in una prigione militare a Quantico, Virginia, dove subì privazione del sonno e torture fisiche e psicologiche. “Poteva vedere la luce del sole solo per 20 minuti al giorno”.

Fuori dalla sua cella la guerra continua. Non solo quella sul campo, ma anche quella ancora più violenta e devastante dell’amministrazione e del Pentagono contro coloro che provano a diffondere documenti riservati riguardo le guerre di inizio anni Duemila. WikiLeaks, reso ormai celebre dai documenti trasmessi da Chelsea, e il suo fondatore Julian Assange diventano i nemici pubblici numero uno.

Le condizioni di prigionia di Chelsea, nel frattempo, fanno scalpore, così come la sua condanna, nel 2013, a 35 anni di carcere. Verrà assolta solo dall’accusa di “connivenza col il nemico”, per la quale avrebbe potuto anche ricevere la pena capitale.

“Volevo solo che la gente vedesse ciò che avevo potuto vedere io, e far capire a tutti cosa furono quelle guerre”, dirà in seguito. Nel 2017 Barack Obama le concederà la grazia, ma verrà incarcerata nuovamente nel 2018 per essersi rifiutata di presentarsi di fronte al grand jury. Dopo un tentativo di suicidio in carcere, verrà rilasciata una decina di mesi dopo, il 10 marzo del 2020.